La boxe professionistica è l’unico grande sport americano le cui energie primordiali, e a volte omicide, non sono deviate con falso pudore da oggetti come palle e dischetti di gomma. Per quanto estremamente ritualizzato, e vincolato da regole, tradizioni e tabù con la stessa rigorosità di qualsiasi cerimonia religiosa, sopravvive come la più primitiva e terrificante delle competizioni: due uomini, pressoché nudi, si battono su uno spazio rialzato e illuminato a giorno, delimitato da corde come un recinto per animali… due uomini salgono sul ring da cui, simbolicamente, ne scenderà uno solo... La boxe è l’imitazione stilizzata di una lotta per la vita o per la morte, eppure questa sua mimesi è una convenzione dall’esito incerto, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento; le loro vite a volte, se non sempre, vengono accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti… Per buona parte dei pugili, passati e presenti, la vita sul ring è ingrata, brutale e corta − e nemmeno troppo redditizia».  

Così, nel 1992, la scrittrice americana Joyce Carol Oates descriveva, citando l’angoscia del Leviatano di Hobbes, la boxe in un suo saggio sulla rivista The New York Review of Books. Perché una narratrice, docente di scrittura a Princeton University (sul cui campus si svolge un altro romanzo della Oates, appena tradotto da Mondadori, Il maledetto, tra i personaggi il futuro presidente Wilson) e nota per carattere forte e cultura sofisticata, dedicava tanta passione a uno sport popolare e violento? Cercando la risposta si litigò in più di un cocktail party, chi citando il padre della Oates che la portava da bambina a bordo ring, chi i classici antichi, la statua del pugile a riposo attribuita a Lisippo, o Hemingway che insegna la boxe al poeta Pound, incapace di un buon gancio sinistro.

Per Anatole Broyard, romantico e sentimentale critico del New York Times scomparso nel 1990, la Oates peccava – davanti alla boxe - di «romanticismo e sentimentalismo» ma si riscattava, intuendo come fine dello sport non sia la «violenza», ma «la sottomissione» dell’avversario. E la raccolta di saggi che infine la Oates pubblicò in America nel 1987 come On Boxing venne premiata dal critico-arbitro Broyard «Se non come KO, almeno come vittoria fantastica per KO tecnico».

Ora la casa editrice 66and2nd, con il traduttore Leonardo Marcello Pignataro, ripropone Sulla boxe (con (quattro saggi inediti) e anche il lettore italiano potrà contare la Oates fino a 10 sul ring della prosa, per decidere in che modo la Oates tratti il tema. E riflettere sulla bravura con cui tanti scrittori americani, dal giallista Rex Stout autore di Nero Wolfe con il baseball, al maestro dei racconti Cheever su football, nuoto e atletica, De Lillo con la palla ovale nei colleges, riescano a «narrare» lo sport, mentre in Italia, dalla lontana polemica di Umberto Eco contro il giornalista e romanziere Gianni Brera, letteratura e agonismo si frequentano poco.

In Joyce Carol Oates la boxe non è metafora della vita. Se il critico Franco Moretti considerava il football metafora della vita americana, la Oates guarda agli uomini che si picchiano, o cercano di sottomettersi sul ring, non come maschere ma come personaggi in diretta, che cercano non di comunicare ma di sopravvivere, e in questa orgogliosa sofferenza, tessono la propria epica sanguinosa. «Come in una tragedia in cui nessuno muore –scrive la Oates - un incontro di boxe che non finisca con il classico KO sembra sospeso, incompleto: la forza, il coraggio, l’inventiva e la disperazione dei due boxeur non viene misurata a fondo. La catarsi è solo parziale, il principio aristotelico dell’azione in sé, mutilato. (Ricordate la furia del giovane Muhammad Ali contro l’imbelle Sonny Liston, nel loro secondo, nefasto match del 1965: invece di tornarsene tranquillo nel proprio angolo, Ali incombe sull’avversario al tappeto, con il pugno chiuso, urlando “Alzati e combatti cialtrone”».

«Riferendosi a Muhammad Ali all’apice del successo, Norman Mailer osservava: «Era come se combattesse partendo dal presupposto che ci fosse qualcosa di scandaloso nell’essere colpito», ma la Oates ama invece gli incassatori, compreso l’ultimo Ali contro Foreman in Zaire, che soffrono per stancare l’avversario, come vietnamiti con gli americani. Passano i pugili che hanno sofferto sul ring, da Ali a Jake LaMotta, Rocky Graziano, Ray Mancini, che «fanno di tutto per essere malmenati quasi ad alleviare il senso di colpa, in una sorta di baratto dostoevskiano tra benessere fisico e pace dello spirito. La boxe consiste più nell’essere colpiti che nel colpire, così come consiste più nel provare dolore…che nel vincere».

Alle signore perbene che odiano la boxe e vorrebbero proibirla, la risposta della Oates è un uppercut «Non ho nessuna difficoltà a giustificare la boxe come sport perché non l’ho mai considerata uno sport». Sulla boxe è un saggio sulla violenza e il dolore, la resistenza e l’umiltà, l’erotismo e la virilità. Che si svolga su un ring è un caso, perché il match è la nostra vita, e l’avversario nell’angolo opposto, il nostro Destino. Libro bellissimo e da leggere.