«Lei può girare per la Playboy Mansion come desidera. Parlare a chi vuole, mangiare quando crede, chiacchierare con le ragazze. Un addetto la scorrazzerà con la vetturetta da golf per i viali. Lei ha accesso al Grotto, dove le Playmate si rilassano, giorno e notte. Buon lavoro!». Lavoro? Inviato a intervistare il leggendario Hugh Hefner, fondatore della rivista di nudi e articoli letterari Playboy scomparso ora a Los Angeles a 91 anni, tutto sembrava tranne che lavorare. Alla Mansion festa continua, le giovani, in cerca di un contratto con il cinema, marito ricco o l’utopia di apparire «centerfold», la foto centrale che emozionava gli adolescenti, erano odalische dell’harem di Hugh. Sfrontate o malinconiche, «Ho visto il diavolo qui dentro sa?» – mi confidò una bionda come la Anne Nicole Smith, che da Playboy arrivò a sposare un magnate morente, ne sfidò gli eredi in un processo, per poi morire sola e gonfia di pillole. 

«Non creda a quel che dicono di me – mi ripeteva Hefner, foulard sul collo già rugoso, occhi vispi – la verità è che io sono un rivoluzionario. Ci insegnano che la vita è una valle di lacrime. Per me è un party. E ho vinto io contro i moralisti, la mia è la sola rivoluzione vincente: la rivoluzione sessuale». Nato a Chicago, nel 1926, Hefner cresce in una casa di protestanti all’antica «neppure al cinema la domenica, lavorare, studiare, sposarsi: il sesso? Obbligo ripugnante di cui vergognarsi tra le lenzuola». In divisa durante la Seconda guerra mondiale, Hefner si laurea in psicologia e fa l’impiegato, finché non lavora ad una rivista allora famosa, Esquire, e impara il mestiere. S’era sposato, ma la moglie gli confida di avere avuto altre storie. Il tradimento lo disillude sull’amore eterno – almeno così raccontava – e, malgrado due figli e un divorzio diventa, per sempre, Mr. Playboy. Il periodico nasce nel 1953, alla Casa Bianca l’austero presidente Eisenhower, che – benché accusato di aver avuto come amante la sua autista – appare fedelissimo alla consorte Mamie. Guerra Fredda e melodie di Perry Como dominano gli umori. Solo l’anno prima il rock sensuale di Buddy Holly arriva in tv e giusto nel 1953 incide il primo vinile Elvis Presley. 

L’America da sola produce quasi la metà del Pil mondiale e ha voglia di fare festa. Le 55.000 copie del primo Playboy, finanziate con 600 dollari dalla puritana famiglia Hefner, vanno esaurite grazie a nudo di Marilyn Monroe. Il mito del coniglietto con la cravatta a farfalla nasce nel secondo numero, a ruba tra foto sexy e interviste colte. La battuta vecchia è «io leggo Playboy, mica guardo le figure» e Hefner offre lo sconto del 25% sugli abbonamenti ai sacerdoti.  

Firmano su Playboy premi Nobel come Saul Bellow, Norman Mailer, lo scrittore afroamericano James Baldwin, Joyce Carol Oates. Alex Haley debutta con Radici, John Irving con Il Mondo secondo Garp, gli scoop di Tutti gli uomini del Presidente dei cronisti Carl Bernstein e Bob Woodward fruttano a Hefner un posto nella «lista nera» del presidente quacchero Nixon. 

Allora Playboy è già un’industria, Hefner promuove la «rivoluzione» da uno show televisivo con bionde languide, musica jazz, la pipa e i cocktail, edonismo decadente contro etica protestante. Nei club Playboy i businessmen sono accolti da conigliette in costume, la gioia di vivere produce profitti da gadget e sponsor. Il rivoluzionario cubano Fidel Castro si fa intervistare dal rivoluzionario Hefner, il presidente Carter ammette pentito «ho commesso adulterio nel cuore» sfogliando le foto. Ma quando i club di Miami e New Orleans non accettano soci neri tra le ragazze bianche seminude, Hugh ne impone subito l’iscrizione «Playboy è liberazione, non discriminazione». 

La crisi arriva con il femminismo, cui la libertà ammannita da un satiro in pigiama di seta appare nuova schiavitù. Gloria Steinem, scrittrice e attivista, si finge coniglietta e pubblica una devastante critica dei club di Hefner. Il rivoluzionario finisce contestato dalla scrittrice Susan Brownmiller «vestiti tu da coniglietto» e resterà amareggiato, almeno finché la femminista radicale Camille Paglia non scrisse che anche Playboy aveva contribuito all’emancipazione femminile. 

Il resto fu declino malinconico, i club chiusi, le difficoltà dell’impresa, un socio processato e poi suicida per la droga, una Playmate uccisa in oscure circostanze, il matrimonio con l’algida Playmate Kimberley Conrad finito in divorzio nel 2010, le nozze show del 2012, 86 anni lo sposo, 26 la sposa, con un’altra signora delle foto centrali, Crystal Harris. Ora la Mansion sembrava una casa di riposo, un anziano assistito da procaci infermiere. I giornali americani oggi ricordano Hefner come filantropo per il cinema e la cultura. Credo gli sarebbe piaciuta poco questa benedizione postuma. Salutandomi mi diede la mano «spero si sia divertito, c’è poco in questa nostra vita se non ci divertiamo e glielo dico io che ho avuto oltre mille amanti»”.