Il 16 agosto 1946 il critico principe del New York TimesOrville Prescott recensisce il nuovo romanzo di Robert Penn Warren, Tutti gli uomini del re, con ammirazione: «Nato nel Sud, nel Kentucky, e cresciuto nel Tennessee… Warren ha scritto un romanzo accidentato e ostico come una strada di tronchi sulla palude, irrisolto, incerto davanti ai problemi della vita… eppure magnifico, vivace da leggere, con tensione scintillante… intriso di emozioni feroci, con ritmo narrativo e immagini poetiche scintillanti, non un “romanzo di lettura”… ma un testo che non ha pari… non da leggere pigri, distesi su un’amaca, ma da divorare sino alle 3 di notte, da portare in treno e in metropolitana e leggere mentre aspettate il tram, un appuntamento, l’ascensore o – se capitasse - un passaggio su un elefante…». 

 La pittoresca recensione di Prescott descrive alla perfezione l’opera di Robert Penn Warren, premio Pulitzer 1947, che, apparsa in italiano da Bompiani e poi dimenticata, viene ora ritradotta da Michele Martino sul testo originale rivisto, tra polemiche in America, dal critico Noel Polk. Tutti gli uomini del re ritorna al momento giusto, narrativa sulla fine delle illusioni in politica, sulla corruzione del potere, sul populismo che finge di offrire soluzioni facili alla disperazione e invece inacidisce la democrazia. La scrittura allucinata, che rendere in italiano non è semplice, di Tutti gli uomini del re mostra come l’ossessione del potere distrugga sentimenti, valori, ideali. Le prime pagine sono classiche, veloci, ironiche, indolenti nella malinconia di una morale perduta. 

 Il narratore è Jack Burden, storico fallito, cronista fallito, reclutato dal governatore Willie Stark, il Boss, per ricattare gli avversari e neutralizzarli. Stark debutta come campione del popolo per poi concentrarsi a difendere la ragnatela del potere, grazie al fango raccolto da Jack. Warren si ispira al populista governatore della Louisiana Huey P. Long, il cui motto elettorale era «Ogni uomo è un re», patriarca di uno stile politico che porterà il suo successore Edwin Edwards a proclamare tronfio «gli elettori mi bocceranno solo trovandomi a letto con una ragazza morta o un ragazzo vivo», salvo poi andare il galera per corruzione. Come Long, Stark finisce assassinato, in un degrado che innesca violenza e che Warren aveva bazzicato da ragazzo, scrivendo volantini razzisti, poi ripudiati da adulto, colpito in Italia dal totalitarismo di Mussolini. 

 Il Boss è un Machiavelli del Sud americano, suadente, sensuale, adorato dalla balbuziente guardia del corpo O’Sheean, detto Sugar-Boy, e capace di affascinare anche la giovane Anne Stanton che Jack ama e che finirà invece – viva - nel letto di Stark. L’abuso morale è destinato a perdere infine l’arrogante Stark, ma quando Jack scopre il tradimento di Anne il nichilismo del potere, che ingoia istituzioni e esseri umani, lo sconvolge. l suoi perenni sarcasmi sul «Great Twitch», la fragilità umana che ci costringe a ripetere le nostre azioni, si rivelano la maschera ridente dell’impotenza. Disgustato, parte allora per una solitaria On the Road verso la California, meditando sulla vecchia tesi di laurea sulla Guerra Civile e i dilemmi morali di Cass Mastern, l’antenato i cui valori e azioni sembravano sporcarsi per sempre nel tradimento. Ormai senza illusioni, Jack Burden, impressionato da un’operazione di lobotomia condotta dal fratello chirurgo di Anne, concluderà disperato che il male è insito in noi, che né l’ansia di giustizia né la brama di potere, possono emanciparci e la sola strada è accettare, con virile rassegnazione, il destino. 

 Il lettore di questa recensione che decidesse, facendo benissimo, di leggere d’estate Tutti gli uomini del re, si stupirà di non trovare il nome di Willie Stark, il Boss, che nella traduzione di oggi si chiama Willie Talos. Intorno al romanzo c’è stata infatti una lunga battaglia filologica e al testo originario s’è sovrapposta l’edizione critica in cui, tra vari mutamenti, il Boss da Stark diventa Talos. Per riportare l’intera vicenda servirebbe un nuovo articolo, la nuova versione del testo è difesa da Noel Polk, ma bocciata da Joyce Carol Oates come restauro troppo lontano dal testo originario. Anche io preferisco l’originale testo del 1946 approvato da Warren e lodato da Prescott, pur tra mille ripensamenti. Il Boss, per me, resta Willie Stark. 

 Stark o Talos però, Tutti gli uomini del re è romanzo indimenticabile, trasformato in un film premiato con tre Oscar dal regista Rossen e in testo teatrale da Piscator. L’America di Warren è ossessivo palcoscenico morale, il Sud tormentata e cinica parabola delle imperfezioni della democrazia e dell’umanità. È un classico che vi sorprenderà.