Esce ora in italiano da Einaudi – dopo oltre 40 anni d’attesa, sorprendente per il paese che ha il record traduzioni - End Zone, secondo romanzo di Donald Richard DeLillo, che, come milioni di italoamericani, ha preferito accorciarsi il nome in Don. Apparso in America nel 1972 è – spiega DeLillo in un’intervista con Tuttolibri - «Frutto della mia ossessione, la mia concentrazione sullo sport. I giocatori di football del college di Logos, e ho scelto proprio una scuola texana perché in Texas il football ha modi e cadenze quasi religiose dandogli questo nome simbolo, vivono in un’America dove l’assassinio del presidente Kennedy è lontano meno di dieci anni, la guerra in Vietnam, con la leva obbligatoria, incombe su tutti i maschi, lo scandalo del Watergate è dietro l’angolo, il presidente Nixon si dimetterà nel 1974, ma i repubblicani hanno trionfato alle elezioni 1972. Gary Harkness, il giocatore protagonista, si imbambola con gli spinelli, corteggia la ragazza Myna, ma in realtà, come me al liceo, sprofonda nei pensieri. Molti dicono che lo sport è metafora della guerra, gli studenti del college Logos non ne sono troppo persuasi».

Anzi, in una scena divertente, si strafanno di erba e in partita quasi non riescono più a muoversi per lo sconcerto degli allenatori. È l’America incerta degli anni Settanta, quando i Creedence Clearwater Revival cantavano, l’ex eroe di guerra McGovern faceva il pacifista da candidato democratico e al quotidiano Washington Post due cronisti sconosciuti, Woodward e Bernstein non sapevano ancora che sarebbero diventati famosi al cinema con Hoffman e Redford. DeLillo è celebrato dai critici delle accademie – la cerebrale New York Review of Books lo definisce «Sciamano Capo della Scuola di Paranoia della Letteratura Americana» e il professor David Cowart nel saggio Don DeLillo the Physics of Language dedica un intero capitolo a «Football and Unsäglichkeit End Zone», discettando sulla «indicibilità del football americano in End Zone».

Ci si avvicina a DeLillo dunque con timidezza, ma il maestro della teoria del linguaggio declinata sui temi del tempo, da Kennedy al dopo Guerra Fredda, semplifica senza artifici snob: «Il linguaggio è per me un personaggio, non un mezzo. L’uso del gergo nello sport, in politica, nel giornalismo, nei codici dei servizi segreti, mi affascina. Io non parlo italiano, parlo e capisco il dialetto abruzzese, so che in Italia Campobasso fa parte adesso del Molise, ma mio padre si diceva abruzzese. Come non parlo italiano, anche se ho letto alcuni dei vostri scrittori, Veronesi per esempio, così non parlo la lingua accademica dei critici, non la capisco, non la leggo. Da ragazzino, nel Bronx, la sintassi del baseball alla radio, le colonne dei risultati sui giornali mi facevano sentire “dentro” la partita, anche da lontano. Di questo hanno paura, e questo affascina i ragazzi del Logos: del vivere attraverso una parola».

«Sciamano della paranoia» sembra etichetta bizzarra per un italoamericano semplice, educato, molto concentrato sul lavoro come sempre i figli della prima generazione negli Usa, gentile. Gli chiedo se dopo i suoi classici Americana, Libra, Underworld, White Noise, narrativa che fa da colonna sonora alla Guerra fredda e al suo declino, non abbia in animo di scrivere su Cold War II, la seconda guerra fredda strisciante. Sospira: «Seguo con molta attenzione quel che succede in Ucraina, la strategia di Putin in Russia. Veda, in un certo senso il mondo della Guerra Fredda numero 1 era meno pericoloso di oggi, Usa e Urss testavano le loro armi in pubblico, calcolando la forza reciproca e evitando di affrontarsi. Abbiamo perduto questa bilancia, magari del terrore ma che scongiurava la guerra. Una guerra mondiale ci sembra un’aberrazione, ma mi preoccupa la mancanza di un test chiaro: il presidente Obama e Putin non capiscono le rispettive intenzioni, e questo è pericoloso».

End Zone ha ancora la freschezza del tempo, DeLillo non aveva 40 anni quando lo pubblicò. Adesso nello scrittore si sente malinconia, consapevolezza del passato, incertezza sul futuro: «Il linguaggio, il personaggio centrale, vive nel computer, sul web.

I ragazzi lo imparano e usano via social media, nella tecnologia. L’America del web mi appare chiusa in una conchiglia, la conchiglia Internet, che rinchiude soprattutto i ragazzi, ma non solo. I computer possono negare esperienze grandi, reali, che ci appassionavano da giovani. Allora la percezione interiore si scontrava con il mondo della Guerra Fredda. Adesso quella percezione interiore, avvinta ai social media, deve nutrirsi – o almeno così mi sembra - di se stessa. Si riduce lo spazio per confrontarsi con la realtà, temo che i giovani americani abbiamo una dimensione ridotta per sviluppare una coscienza globale. Si parla tanto di self publishing, mettere online libri senza editore: non c’è il rischio di narcisismo? Temo di sì».
A 77 anni, «la coscienza globale» che insegue DeLillo, dal Bronx alle accademie di cui poco si cura, lo tormenta con l’ombra della paura, dove la ragione si perde in una politica che è potere senza idee. D’un tratto sorride «Questa estate seguirò il Mondiale, anche se gli Stati Uniti, per cui tifo, mi sembrano in un girone impossibile. Il calcio è il vero sport globale no? Eppure stenta a farsi largo qui in America e sa perché? Perché il football – sia o no metafora della guerra - è simile alla vita, uno ha qualcosa, il pallone in questo caso, e un altro gli si getta addosso per strapparglielo. Chiaro no?».

Salutando DeLillo gli ricordo il columnist conservatore George Will che, dopo aver letto Libra, lo definì «vandalo letterario, cattivo cittadino». «Non me la presi – dice piano l’abruzzese americano maestro del romanzo del XXI secolo, senza aggettivi snob – uno scrittore deve sfidare il potere no? Ma soprattutto mi pare che questa famosa leadership americana da temere, o di cui esser fieri, sia ormai un mito del passato. Le pare che sul pianeta si proietti l’immagine poderosa della nostra forza?». No, caro DeLillo no, e speriamo di non dover dire prima o poi: «purtroppo».