Giacobbe La Motta, detto Jake, era un «dago», l’insulto per noi italiani nel Bronx, dov’era cresciuto. Ma non credo tanti l’avranno chiamato così, sul ring e fuori, senza finire poi a terra a sputar denti. 

Quanto a lui, a Giacobbe La Motta, campione della boxe quando il mondo era duro, Anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, diceva «La verità? I cazzotti non mi hanno mai fatto male. Il naso me l’han rotto sei volte, le mani sei volte (una in galera, facendo boxe contro il muro), le costole non le conto neppure, sugli occhi mi han messo 50 punti. Ma solo fuori dal ring ho sofferto». La mafia non lo fece combattere per anni, perché non voleva mischiarsi con le scommesse truccate, poi si prese la vendetta di testimoniare contro di loro, «sono pezzenti, non mi fanno paura». Buttò fuori dalle corde Sugar Ray Robinson nel 1943, ma l’ultima volta che lo incontrò, otto anni dopo, era vecchio e fuori forma, sgonfiato di quasi tre chili in 12 ore per non pesare oltre la categoria sulla bilancia: «Mi scolai due cognac per darmi coraggio, ma l’alcol ti dà finto coraggio, che è vera paura». Fu sconfitto. 

Ebbe sei mogli, Vikki la più amata e tradita, infiniti amori, riformatorio da ragazzo, galera da uomo, Scorsese e De Niro gli ridiedero la gloria con il capolavoro «Toro scatenato», «senza di loro sarei un fallito, allenai De Niro per un anno, poteva fare il professionista tanto pestava». Giacobbe Jake La Motta è morto ora a 95 anni, o forse 96 la famiglia non aveva le idee chiare sulla data. È di moda in America vandalizzare le statue dell’italiano Cristoforo Colombo, ma se a qualcuno venisse voglia di provarci anche con Giacobbe Jake sento che il gong del ko suonerebbe subito, a forza di uppercut.