«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato Cassius Clay a Louisville in Kentucky, in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, che risalivano - secondo il padre del futuro campione - al senatore Clay, celebre nel XVIII secolo. Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi «diavoli», poi, come il leader radicale Malcolm X si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi.  

 

 

 

Cambiò mogli, quattro volte, ebbe nove figli - alcuni lo accusarono di incuria -, cambiò fede politica. Al giornalista sovietico che, dopo la vittoria alle Olimpiadi di Roma 1960, lo provoca sul razzismo in America, Clay risponde con un comunicato in stile Guerra Fredda: «Nel mio Paese stiamo risolvendo la questione, siamo il miglior Paese del mondo, incluso il suo, ci sono problemi ma nessuno lotta con i coccodrilli o vive in capanne di fango». Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»).  

 

 

Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita. Le grandi firme conservatrici, come Red Smith dell’allora mitico quotidiano New York Herald Tribune, lo insultano «Grugnendo contro la leva, Cassius si è ridotto come i sudici capelloni pacifisti da strada», il grande cronista tv Howard Cosell continua invece a invitarlo in trasmissione, contro ogni censura.  

Ali ha quasi 30 anni quando torna sul ring, ma è una celebrità. Il Nobel per la Pace King gli aveva mandato telegrammi di solidarietà, e al primo incontro del 1970 la sua vedova Coretta King è in prima fila con gli attori Sidney Poitier e Bill Cosby, la cantante Diana Ross, il futuro candidato alla nomination democratica Jackson. Ali è icona del tempo, prima di Mourinho, Grillo e Trump aggredisce i cronisti, «Sono il più grande», ha una serie infinita di flirt («Sesso nel tempo di un autografo» scrivono di lui) ma con narcisismo, coraggio, vanagloria, dignità, cambia l’America. Nel piangerlo il presidente Obama ricorda «Ali non era perfetto», l’atleta che dava ai ragazzini neri il coraggio per esser se stessi contro il razzismo, copriva poi di insulti feroci gli avversari.

 

 

Ali, chiaro di pelle, aggrediva il rivale Joe Frazier, nato nell’enclave africana Gullah, come «gorilla», e Frazier ne soffrì fino alla morte, amareggiato. L’uomo di cui il reverendo Abernathy - erede di M. L. King - diceva «i suoi guantoni hanno la forza di una manifestazione per i diritti civili», copriva di improperi troppi pugili, accanendosi contro il povero Sonny Liston al tappeto: «E alzati cialtrone». 

 

Questo era Ali, che si vantava «svolazzo come una farfalla e pungo come un’ape». Aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura. Per un pugile essere stretto alle corde era segno di cedimento - l’espressione «ridursi alle corde» è passata nel linguaggio comune come segno di difficoltà - ma Muhammad Ali si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto. La stessa tattica nel 1974, in Zaire, contro Foreman, la folla a gridare «Ali Bomaye», uccidilo Ali! Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman. L’anno dopo, a Manila, Ali soffre contro Frazier, vince e confessa «È stato come morire». 

 

Ora sappiamo che era davvero «morire», l’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, «showman». Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di Selezione dal Reader’s Digest andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano. 

 

 

L’ultima uscita contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America, anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Ali, come tanti sportivi, era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, concedendogli perfino di persona, nel 2007, il Premio Muhammad Ali, ma ora reagì deluso «Per un candidato presidenziale non è giusto discriminare contro una religione». L’ape della boxe era ora farfalla del dialogo, impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo Paese e nel mondo. 

 

«La boxe professionistica è l’unico grande sport americano le cui energie primordiali, e a volte omicide, non sono deviate con falso pudore da oggetti come palle e dischetti di gomma… Sopravvive come la più primitiva e terrificante delle competizioni: due uomini, pressoché nudi, si battono su uno spazio rialzato e illuminato a giorno, delimitato da corde come un recinto per animali… salgono sul ring da cui, simbolicamente, ne scenderà uno solo... La boxe è l’imitazione… di una lotta per la vita o per la morte… perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento, le loro vite… accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti… la vita sul ring è ingrata, brutale e corta» dice alla perfezione la scrittrice Joyce Carol Oates nel suo saggio «Sulla Boxe» tradotto in italiano dall’editore 66and2nd. 

 

 

Di questa mattanza Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore.