Nella Bibbia, libro della Genesi, per due volte il profeta Abramo risponde «Eccomi!», al richiamo di Dio. Prima l’Eterno gli chiede di sacrificare il figlio Isacco, e Abramo replica «Eccomi!», poi quando la voce dal Cielo lo ferma con il coltellaccio da capraio già levato per sgozzare il ragazzo, la reazione è identica, «Eccomi!». Non è fatalismo, né servile consegnarsi a un potere superiore, è responsabile accettare un ordine del Creato, una disposizione dell’Universo in cui Dio, Uomo e Natura trovano ciascuno un proprio ruolo, un proprio potere, un compito e una responsabilità reciproca. L’ordine che i nostri antenati riconoscevano, le Rivoluzioni in scienza e in politica del XVIII secolo hanno azzerato e di cui noi siamo orfani, perplessi.

COME UNA TELA DI SEURAT  

Eccomi si chiama ora il terzo romanzo di Jonathan Safran Foer, a undici anni daMolto forte, incredibilmente vicino, come il primo, Ogni cosa è illuminata del 2002, tradotto con tempestività in italiano da Irene Abigail Piccinini per Guanda. Dite quel che volete della letteratura americana contemporanea, lamentatevi per l’assenza dell’energia di Hemingway, l’eleganza di Fitzgerald, i sentimenti di Cheever, ma, compilata la lista dei rimpianti, giù il cappello e ammirate quel che loro hanno e a noi manca, prigionieri dell’esangue prosa di un tic toc parodistico, amorini di quartiere, frustrazioni banali da ufficetto, rincorse di mafiosi palestrati, braccati dal magistrato di turno, già in posa per il serial tv di stagione. 

In America una generazione nuova - Foer ha 39 anni - prova invece ad affrontare, con la lucidità rassegnata di Abramo, «Eccomi», la storia del terzo millennio. L’eredità dell’Olocausto nel primo libro di Foer, il terrorismo dell’11 settembre 2001 nel secondo, in Eccomi la distruzione di Israele in una catastrofica guerra del Medio Oriente, la natura che sembra ribellarsi contro il sangue sparso dall’uomo con terremoti apocalittici, la crisi di identità di noi occidentali, americani ed europei che, di fronte ai conflitti, restiamo ipnotizzati da divorzi, sms, piccole porcherie sessuali indirizzate alla vicina di scrivania. 

Come Ryan Gattis, 38 anni, in Giorni di fuoco (ancora Guanda) racconta della rivolta metropolitana di Los Angeles, e Atticus Lish, 43 anni, in Preparativi per la prossima vita (Rizzoli), ricostruisce il dolore di chi torna dalle guerre che l’Occidente va perdendo in giro per il Medio Oriente, la freddezza delle città, la costruzione di nuove identità nell’emigrazione, Foer agguanta il tema del confronto fra tradizione americana, ebraismo e intolleranza armata. Lo fa con scrittura millimetrica, ossessiva, dove ogni particolare è in primo piano, come in una tela di Seurat.  

LA DISTRUZIONE DI ISRAELE  

Qualche critico, vedi A. O. Scott sull’ultimo fascicolo di The Atlantic, può trovare il microscopio di Foer troppo minuto, ma il lettore proceda oltre il «punto per punto» e guardi alla trama grande, generale, al «mondo grande e terribile» come lo chiamava un secolo or sono Antonio Gramsci in carcere, che incombe sulla vita di ogni giorno. Il romanzo ha un incipit agghiacciante, «Quando la distruzione di Israele ebbe inizio, Isaac Bloch stava meditando se suicidarsi o trasferirsi alla Casa ebraica». Bloch ha combattuto nella Resistenza europea (quella di una volta, che levava le armi contro i nazifascisti, non nei siti web), dormendo in buche con polacchi ambigui, fino a restare con le ginocchia paralizzate. 

«Gli orticultori tedeschi - scrive Foer - avevano potato l’albero genealogico di Isaac fino alle sue radici nel suolo galiziano. Ma grazie a fortuna e intuito e senza aiuti dall’alto, lui lo aveva trapiantato nei marciapiedi di Washington, D.C., ed era vissuto fino a vederne ricrescere i rami. E a meno che l’America non si fosse messa contro gli ebrei - fino a quando, l’avrebbe corretto suo figlio Irv - l’albero avrebbe continuato a produrre rami e germogli. Naturalmente Isaac sarebbe stato di nuovo in una fossa, a quel punto. Non avrebbe mai raddrizzato le ginocchia, ma alla sua ignota età, dopo chissà quanti oltraggi chissà quanto vicini, era ora di disserrare i suoi pugni ebraici e ammettere l’inizio della fine. La distanza che separa l’ammettere dall’accettare è la depressione». 

FINIRE CON DIGNITÀ  

La lotta di Isaac, patriarca, è finire con dignità prima della distruzione di Israele, non solo Stato, ma anche comunità ebraica intera, sionisti e diaspora. Se per Philip Roth in Operazione Shylock (Einaudi) identità ebraica-americana è materia di commedia, per Foer è trama di tragedia. A Jacob, figlio di Isaac in procinto di divorziare dalla sensuale e delusa moglie Julia, come all’intera generazione dei Millennials nata dopo la fine del boom economico del Dopoguerra, non è sufficiente gestire le sfide della Storia, deve anche mettere a posto l’infinita agenda delle vanità, che i social media, Facebook, Twitter, Whatsapp, ci prescrivono a ogni istante. Non basta il sesso per il piacere, serve vederlo riflesso nello specchio del racconto, come nelle movenze di Julia, impegnata a sedurre mostrandosi e negandosi, curva tra slip e pantaloni, mamma di tre bambini decisa a restare erotica. 

Jonathan Safran Foer, allievo della scrittrice Joyce Carol Oates a Princeton e ora docente di scrittura alla New York University, ha composto un romanzo congruo e avvincente, nella sua prosa «visiva», fotografica. Nel leggerlo, guardate al di là del mezzo letterario e dei suoi - a volte troppo evidenti - artifici, non perdetene la visione. Terrorismo, Siria, emigrazione, burkini in spiaggia, il Papa che predica la pace mentre i caccia di Putin decollano dalle basi in Iran parlano di un secolo in cui ciascuno di noi, paesi, nazioni, comunità, individui, sarà, come Abramo della Genesi e Isaac di Eccomi, chiamato a rispondere di sé stesso, per sempre, a una domanda ineludibile. E quando la domanda verrà, non basteranno un post su Facebook, una foto con moltissimi «mi piace» rilanciata da Instagram, a salvarci.