Due giorni fa il governo Renzi ha compiuto un anno. Un anniversario coronato dalla recente approvazione dei primi due decreti attuativi del Jobs Act e dall’entusiastica promozione della riforma del lavoro da parte dell’Ocse. E’ solo l’ultimo dei riconoscimenti, nazionali e internazionali, che questa riforma riceve.  Come più volte già sottolineato su queste pagine, l’ultima parte dei 12 mesi che hanno visto alla guida del Governo il più giovane Presidente del Consiglio della storia repubblicana hanno raccolto una inedita serie di congratulazioni e di previsioni ottimistiche sospinte sia da timidi segnali positivi per l’economia, sia dalla spavalda comunicazione renziana che della riforma del lavoro ha fatto simbolo di determinazione riformista.

Venerdì scorso, il “giorno atteso da anni”, il giorno del compimento della “rivoluzione copernicana” ha sancito la vigenza di un nuovo regime di flessibilità in uscita, sulla scia di quanto fatto dalla riforma Fornero.

Sul versante della flessibilità in entrata, alcuni settori industriali temevano invece di vedere la loro flessibilità organizzativa venire compromessa dalla scure sulle tipologie contrattuali. Una scure che si è limitata all’abrogazione dell’associazioni in partecipazione e del Job sharing, forme poco diffuse, e a una stretta relativa sulle collaborazioni coordinate continuative a progetto (co.co.pro). Quest’ultima preoccupa effettivamente non poche associazioni datoriali e non pochi lavoratori. Tra questi gli addetti ai call center che per iniziativa dei sindacati Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil si son già mobilitati sabato a Roma.

La revisione dei contratti non conduce comunque al contratto a tutele crescenti come contratto unico, come si legge nell’erronea traduzione italiana del discorso pronunciato del segretario generale dell’Ocse Angel Gurrìa in occasione della presentazione dello studio economico sull’Italia. Gurrìa ha parlato infatti di uno “standard employment contrac”, ossia un contratto prevalente, tipico.

Il nuovo contratto a tempo indeterminato è effettivamente più digeribile per la sostenibilità aziendale, grazie al combinato di incentivi economici e liberalizzazioni normative (superamento dell’articolo 18). Motivo per il quale si spera che siano in molti gli imprenditori che stanno attendendo il primo marzo, giorno di probabile effettiva entrata in vigore del decreto sul nuovo contratto.

Nell’attesa i dati disponibili bastano per far dire all’Ocse che “l’italia è tornata”, e cheperò se “Molto è stato fatto, molto di più resta da fare”. Sono le due frasi che campeggiano in grassetto sulla pagina del sito dell’OCSE che riporta  il discorso di Gurria. Un sollecito, ma al tempo stesso una lusinga per il percorso di riforme avviato.

Secondo l’Ocse alla riforma del mercato del lavoro dovrebbe “essere data la massima priorità [...]per rafforzare la produttività e aumentare i posti di lavoro”. Tipicamente lo scambio sulla produttività avviene nella contrattazione a livello aziendale e l’istituto lo sottolinea esplicitamente. Il Jobs Act di ciò non si è sinora occupato, se non andando a rendere disponibili per legge alcune modifiche ai contenuti contrattuali che erano già possibili in virtù del contestato articolo 8 della legge 148/2011 sugli accordi aziendali in deroga.

Eppure la contrattazione di secondo livello era una delle quattro sfide dirette lanciate da Renzi ai sindacati durante la direzione pd del 29 settembre, preludio alla riapertura della Sala Verde. Staremo quindi a vedere se anche questa sfida si concretizzerà in modo più diretto. Fatto sta che in questa osservazione dell’Ocse sta probabilmente il principale invito a fare di più rivolto al nostro paese.

Nelle condizioni auspicate dall’organizzazione, in dieci anni il PIL potrebbe raggiungere il 6% di crescita.

Una prospettiva che combinata con i dati resi noti dall’istat pone però la questione della distribuzione di questa ricchezza. La dimensione qualitativa del lavoro è in effetti un tema negletto, regolarmente offuscato dalla passione per i numeri o semplificato negli schemi del precariato.

Secondo l’Istat nel 2012 circa sei famiglie su dieci (il 62%) avevano registrato un reddito netto inferiore alla media: circa 2.452 euro al mese. A questi numeri si aggiungono le stime della Caritas che parlano di un italiano su tre a rischio povertà.

La discussione innescata dalla morbida scure del governo sui contratti cosiddetti atipici potrebbe essere un’occasione per rivedere i termini in cui viene tradizionalmente interpretato il parametro della sicurezza sociale nell’occupazione.

Se intesa dal punto di vista della tutela dal licenziamento, il contratto ora più stabile potrebbe essere considerato quello tempo determinato, e non quello a tempo indeterminato. Nel primo infatti non è permesso il licenziamento prima della scadenza del termine, se non per giusta causa, cioè se esiste un fatto tanto grave da impedire la prosecuzione del rapporto, anche provvisoria. Niente licenziamento disciplinare o economico, per semplificare.

Dal punto di vista economico invece la sicurezza sul mercato del lavoro fatica ad essere percepita nei termini della flexicurity, ossia della mobilità professionale sostenuta da efficienti politiche passive e soprattutto attive. Fatica semplicemente perché questo sistema ancora non esiste in Italia, nonostante già con la legge Biagi se ne fossero poste le basi operative.

C’è però un terzo fattore che non attiene né al licenziamento né al ricollocamento, bensì alla disponibilità del credito bancario.  Una prospettiva di un mondo del lavoro dinamico, flessibile, caratterizzato dalla formazione continua e dalla versatilità professionale, non ha sostenibilità reale anche se mancano erogazioni bancarie verso famiglie e imprese che sappiano adattarsi a questa flessibilità. In questo senso il nuovo contratto a tempo indeterminato, relativamente meno sicuro per le banche dal punto di vista del rischio di insolvenza, potrebbe contribuire a intensificare una ricerca di nuovi modelli di credito da parte degli istituti bancari.

Ciò è perlomeno auspicabile. Infatti affinché la parola “mutuo” entri automaticamente a far parte dell’universo degli ex co.co.pro, come ha lasciato intendere Renzi, il Jobs Act da solo probabilmente non basterà.