È di giovedì scorso l’ultima diatriba sui dati del lavoro. I sostenitori delle misure del Governo segnalano che aumenta l'occupazione e anche la sua qualità, e più rapidamente del previsto, mentre gli scettici denunciano quello che dal loro punto di vista è un troppo facile - e troppo ricorrente - entusiasmo.  Guardando i numerosi precedenti ce lo si poteva aspettare. Conviene quindi fare subito una premessa, perché ormai quasi matematico è anche il rischio di vedersi consegnati alla famiglia dei gufi anche solo suggerendo la più classica cautela degli ottimismi. Nessuno mette in dubbio che un aumento tendenziale del numero di contratti a tempo indeterminato stipulati esista, e vero è che i dati Istat per il primo semestre del 2015 segnalano un aumento del numero di occupati. Non c’è ragione, poi,  di sperare che queste tendenze non proseguano.

Se però anche i moderatamente critici di oggi paiono i più cocciuti negazionisti dell’evidenza ciò è forse frutto di un effetto di contrappunto dato dall’uso che la comunicazione politica ha voluto fare dei dati del lavoro, rendendosi protagonista di alcuni episodi sconvenienti. Come i calcoli errati dei nuovi contratti a tempo indeterminato in un anno, sia su dati Inps, sia su dati ministeriali, con gran risalto sulla cronaca in quest’ultimo caso. Come dimostrato da quanto accaduto, a suscitare qualche dubbio sull’uso dei dati non deve essere tanto una supposta manipolazione. Al Ministero del Lavoro sarebbe infatti bastato non fare alcuna correzione per far presto cadere nel dimenticatoio del grande pubblico la contestazione dei calcoli; invece l’ammissione e la correzione, pur non chiarissima, sono arrivate.

Quando si dice “mentire con i dati” ci si riferisce talvolta alla variabilità del periodo di riferimento, uso o meno dei saldi, o alla selezione della tipologia di dati più favorevoli (c.d. cherrypicking). Così funziona anche la comunicazione in genere, tanto che è questa a guidare il filtraggio dei dati in base agli obiettivi. Non conta quindi solo quello che si dice, ma quello che non si dice; e di andamenti a lungo termine, di lungimiranza e progettualità, in politica si parla sempre meno.

Tutti concordano sul fatto che le dinamiche economiche ed occupazionali siano da osservare nel lungo periodo, ma la disponibilità di dati così frequenti si sta rivelando una tentazione troppo forte per la comunicazione politica, tanto che di recente nuovi dati positivi sono stati annunciati addirittura prima della loro pubblicazione. Sono proprio la fretta e una certa approssimazione nel comunicare a stupire e confermare il fatto che in politica si riscontra sempre più inclinazione a suscitare fiducia e rafforzare un’idea di “ripesa economica”, piuttosto che a misurarle e interpretarle in modo utile.

Guardare al lungo periodo invece non significa necessariemente scegliere una parte nella contesa comunicativa tra detrattori e sostenitori del Governo, ma semmai porre questioni che come cornice interpretativa abbiano la sostenibilità. Per esempio, se i cicli economici non cambieranno, non diventeranno essi più regolari e continuativi nel tempo potrà avere vero successo il cosiddetto “lavoro stabile”? Qual è la risposta possibile all’inattività dei giovani e quindi al loro bassissimo tasso di occupazione? O ancora: è valido il sillogismo secondo il quale la stipulazione di un contratto a tempo indeterminato equivale a un investimento in capitale umano, quando il suo rilancio sta coincidendo con una questione prevalentemente di agevolazioni e quindi di spesa? Può darsi che la risposta sia sì, ma nell’ambito del dibattito politico queste domande appaiono meno retoriche di quanto siano inevase. Se è infatti vero che l’economia e l’occupazione italiana non solo non retrocedono più, ma non sono nemmeno ferme, difficile è affermare che la politica punti ad argomentare circa i motivi per i quali si deve avere fiducia in una certa visione del futuro. Non importa insomma spiegare perché la ripresa esistente può diventare sempre più solida. Importa ripetere appena ce n’è occasione che la ripresa esiste, che inesorabile è non tanto il suo corso quanto la sua esistenza. D’altronde la scommessa renziana è sempre stata il “cambiare verso”. Dopo gli anni della crisi, non conta ora la velocità, conta che il verso sia quello giusto. Non si tratta perciò di manipolazione o di mistificazione, ma di orientamento: una scelta quasi obbligata. Proprio tanto più un fenomeno è sottile, di difficile percezione, tanto più serve ribadirne l’esistenza, la fiducia nella ripresa, esattamente come la fiducia parlamentare, la si verifica tanto più spesso quanto più è dubbia, un po' come si guarda se il termometro è sopra o sotto lo zero tanto più si ha freddo.

L’importante insomma è costruire categorie certe, proprio come si è costruita quella dei pessimisti. Prima di Renzi, nella percezione comune degli schieramenti ideologici questa categoria non aveva avuto tanta fortuna. Ora, per un effetto di polarizzazione delle attitudini rappresentate, vi ricade chiunque provi a fare luce un po’ più in profondità nelle cose. Non esiste nemmeno più un perimetro per  fact checking o watchdog: tutti paiono in trappola nella gabbia dei gufi. Perché ne possano uscire, non basterà ridurre la confusione sui numeri, come si spera avverrà con la tanto attesa integrazione comunicativa dei dati provenienti da Istat, Ministero e Insp. Anzi, in modo quasi controintuitivo, anche a Jobs Act completato, servirebbe abituarsi a riflettere su una gamma più ampia di indicatori. Una cultura del dato per trattare anche di lavoro autonomo, nuovi lavori e professioni, disallineamento tra scuola lavoro, fabbisogni professionali e continuità del lavoro nelle politiche attive, sostenibilità del welfare. Perché se non c’è dubbio che si stia remando, e il verso adesso pare giusto, il punto è: in quale direzione è impostato il timone, e perché?