Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è alla prova decisiva. Non importa quanto lunga sarà la sua avventura di governo: il passo cruciale, il momento che ne definirà impronte e identità, è adesso.

Renzi ha conquistato Partito democratico e Palazzo Chigi, ottenuto un brillante risultato alle elezioni europee, il suo piglio, sorridente e abrasivo, attrae consensi e fiere resistenze, mai indifferenza. Ora deve affrontare la classe dirigente, l’establishment italiano, e venirne fuori vivo, senza alienarsi società civile ed economica, ma senza negare davanti a lobby, corporazioni, gruppi di potere, l’agenda di riforme.

Chi abbia la pazienza di ricostruire le parabole politiche di Silvio Berlusconi e Romano Prodi, leader che hanno vinto cinque elezioni nella Seconda Repubblica, osserverà che lo scacco delle rispettive strategie s’è avuto quando hanno contraddetto lo status quo dominante. La reazione, a volte rumorosa, altre ovattata, dei gruppi di influenza ha, con spire avvolgenti o spallate poderose, fermato i provvedimenti ritenuti ostili. Non si tratta più solo della «Casta», maschera che fa da alibi allo status quo diffuso, radicato, durevole e pervicace, tra partiti, imprenditori e loro associazioni, sindacati, in fabbrica e nel pubblico impiego, corporazioni professionali e del lavoro, media, accademia, intellettuali prestati o no che siano ai Parlamenti. Toccare gli interessi del network «Multicasta» è entrare in un campo minato, cosparso di illustri vittime politiche. Sulle nomine negli enti, Renzi s’è mosso con prudenza e abilità, ora siamo però alla strategia profonda, non al cocktail per un Cda.

Lo scontro sulla scuola è dunque iconico. Il governo sottolinea il ruolo dei presidi come manager, il sindacato teme il clientelismo, da una parte si propongono test standard sul modello del Sat americano, dall’altra si risponde come il filosofo Marcuse nel 1968, contestando i test Invalsi «non siamo crocette», studenti a «una dimensione». È corretto ascoltare ogni voce, sull’educazione è opportuno un dialogo senza diktat, e ognuno deve farsi una libera opinione (la deputata Pd Anna Ascani tiene su Facebook una sorprendente tribuna social rispondendo a tutte le critiche, comprese quelle crude dei «precari esclusi»).

Ma dopo, al netto delle posizioni, tocca al governo governare. Se Renzi è capace, senza arroganze impopolari, di chiarire ai gruppi di influenza che intende governare senza subire ricatti, senza annacquare l’agenda a tutela di rendite, piccole e grandi, in un paese senza crescita da una generazione, avvitato alla crisi 2008, allora ha futuro. Il premier deve negare il mantra feudale dei mandarini, in democrazia si va al potere per usarlo in modo positivo, non per imbalsamarlo in un’eterna salamoia. Il presidente Giulio Andreotti elogiava con malizia la filosofia del «tirare a campare», ma quel credo mediocre ha infine bocciato l’Italia nel mondo globale. Siamo spesso paese incapace di mettere le crocette giuste nel test Standard dei Mercati.

Dalla scuola al digitale, dalle telecomunicazioni alla finanza, dai sussidi per i lavori tradizionali alle lobby dei rentier, Renzi cocciutamente persegua riforme raziocinanti, e, volta a volta, una quota importante di cittadini starà con lui. Non gli manca la verve di comunicazione per spiegarsi, ma se cederà al bluff delle lobby andrà alla rotta, come i suoi predecessori. Malgrado il chiasso corrente sui media, le carte di un bluff sono sempre perdenti per chi ha il sangue freddo di «vederle». Nel secolo digitale e globale, lo Strapaese di chi «tira a campare» non ha futuro.