Nato dall'aristocrazia dei "bramini" di Boston nel 1921 e scomparso ieri, Ben Bradlee è stato l'ultimo leggendario direttore di giornali. Capo del Washington Post quando i reporter Woodward e Bernstein portarono -grazie alle rivelazioni della fonte Gola Profonda- alle dimissioni del presidente Nixon, Bradlee ebbe tre mogli, assunse i migliori cronisti di tre generazioni, lanciò l'idea di un giornalismo colto, elegante, perbene. In cui nessuno credesse di avere il monopolio della verità, ma le notizie, anche quelle scomode, venissero sempre date senza spocchia o arroganza. Un gigante dal sorriso e dallo stile perfetti.

«Fu Nixon a rovinarsi da solo». Parla Benjamin Bradlee, mitico direttore  del Washington Post, che va in pensione

«Nel caso Watergate, il presidente non fu perseguitato dal mio giornale» - «Il lettore deve imparare ogni giorno cose nuove, ma divertendosi» - «Onestà, ironia e diffidenza per la versione dei fatti di chi governa, le regole del buon reporter»

WASHINGTON — Si va a intervistare Benjamin C. Bradlee, direttore del quotidiano Washington Post, nello stato d'animo con cui si invita a ballare Carla Fracci, o si gioca a tennis con Becker. Bradlee, numero uno del giornale numero uno della capitale americana, va in pensione il prossimo settembre, a 70 anni. Ha vissuto in questo ufficio dal 1968, da qui ha diretto l'inchiesta sullo scandalo V/atergate che ha costretto alle dimissioni il presidente Richard Nixon, rivoluzionando l'America. Bradlee, un uomo forte, elegante, abbronzato, i lineamenti dell'aristocrazia di Boston da cui discende, è di persona più bello dell'attore Jason Robards, che lo interpretò nel film sul Watergate "Tutti gli uomini del presidente». Mister Bradlee, cosa farà il mito del giornalismo americano andando in pensione? «Sono solo un collega anziano. Che farò? Lavorerò come vicepresidente al Post e scriverò due libri, uno di memorie e uno dedicato ai lettori, "Come si legge un giornale". Nel tempo libero mi dedicherò alla beneficenza ». Come si legge un giornale? «Mi interessano i lettori. Lei è un corrispondente, guarda il giornale da professionista, conosce i redattori, sa chi sono, se tradiscono la moglie, perché l'articolo è in prima pagina, vede a cena le "firme". La gente deve invece ancora scoprire i nostri segreti ». Li sveli ai lettori del Corriere. «La prima cosa da capire, quando si prende in mano un giornale, è che nessun articolo contiene la Verità. Un reporter va in giro, raccoglie informazioni, lavora in buonafede, ma poi sbaglia, ha limiti di tempo e spazio. Non c'è da innervosirsi, basta sapere che la verità è un processo, ci si arriva giorno dopo giorno, grazie a sforzi comuni, giornalisti e lettori. Questo processo, faticoso e umile, è la sola garanzia delle libertà democratiche. Né più né meno di un pittore che modifica la luce perché il suo soggetto riesca meglio: così un buon giornalista cerca, a tentoni, la verità». E il segreto del buon giornalista qual è? Lo dica soprattutto per i ragazzi che si ostinano a sognare una vita dentro il mestiere. «Lavorate di più di tutti gli altri colleghi. Andate la sera a dormire sapendo che nessun cronista incaricato di seguire quella vicenda ha faticato più di voi. Non abbiate paura di dire: "Scusate, non ho capito bene". Imparate a scrivere. Siate ambiziosi, abbiate degli ideali. Non fatevi spaventare da nessuno. Diffidate del potere e mettete in dubbio la versione di chi governa. Poi, lavorate ancora di più». Quali virtù deve avere il direttore di un quotidiano per proporre ai redattori un simile manifesto? «Il primo consiglio ai direttori è scegliersi l'editore giusto. Se l'editore è un fesso, nessuno ce la fa. Secondo: assumere i migliori giornalisti a disposizione. Non avere paura di assumere chi è più intelligente di voi (a me è capitato spesso)». All'editore, il direttore, i giornalisti e i lettori che lei ha tratto dal Mondo delle idee perfette di Platone giornalista manca solo la ricetta del quotidiano ideale. «Un giornale deve essere leggero, informato, croccante, fresco, non prendersi troppo sul serio, senza pompe, arie e crinoline. Ci devono essere articoli seri, informazioni complete, il lettore deve ogni giorno imparare delle cose nuove ma divertendosi. Non ho una filosofia da dettare sul giornale perfetto, perché di solito i direttori che hanno le idee giuste passano il tempo a lustrarle e dimenticano che la rotativa sta per girare. Se il giornale di oggi è migliore di quello di ieri, e quello di domani più azzeccato di quello che stiamo leggendo, io sono contento: ecco la mia filosofia ». La stanza di Bradlee non è da megadirettore. Una scrivania affollata di carte. Una vecchia macchina per scrivere, un videoterminale delle prime generazioni. Una sola parete lo divide dalla sofisticata redazione che fa e disfa le cronache di Washington: ma è di vetro. I giornalisti vedono in ogni momento che cosa sta facendo il loro direttore. Bradlee ride «Quei filibustieri di Woodward e Bernstein, ai tempi del Watergate, fingevano di passeggiare qui davanti, per spiare con chi parlavo e come preparavo la giornata». Alle sue spalle tre vecchie foto in bianco e nero di Nixon, i capelli scompigliati dal vento, «Belle eh? Sembra un attore omosessuale alle soglie della pensione». Ce l'ha ancora con lui? «Niente affatto. Ho anche pubblicato un suo editoriale di politica estera. Non è il Washington Post ad avere rovinato Nixon. Nixon ha rovinato Nixon». Ha mai avuto paura quando, con due cronisti novellini, metteva alle corde l'uomo più potente del mondo? «No. Mi preoccupavo di un articolo alla volta, non è che pensassi al grande braccio di ferro. Volevo solo che gli articoli fossero precisi, ogni giorno». I suoi Dioscuri di allora hanno avuto i loro problemi: Bob Woodward, stella del Post e autore di grido, è accusato di non citare mai le fonti dei suoi libri, Bernstein, dopo un pasticciato divorzio che Jack Nicholson ha portato sugli schermi, è stato ricoverato per alcolismo. Come li ricorda? «Woodward è una forza della natura, lo criticano gli invidiosi. Per capire la storia americana di oggi, dal Watergate alla Corte Suprema, a John Belushi, la Cia e la guerra nel Golfo, si deve leggere Bob. Bernstein ha avuto una vita difficile, ma io lo stimo e gli voglio bene per quel che seppe fare ai tempi del Watergate ». Si dice che i giornalisti, per la foga dello scoop, diventino troppo amici dei politici. «Chi lavora in una capitale, deve per forza frequentare i politici. E' stupido dire: niente amicizia tra cronista e onorevole. Se due esseri umani si incontrano è inevitabile sorgano simpatie, antipatie, attrazioni, anche sessuali adesso che le donne sono dappertutto. Se sei bravo capisci dove fermarti. John Kennedy abitava dietro l'angolo di casa mia e diventammo amici, mogli e figli si frequentavano. Poi lui fu eletto presidente: e dovevo perdere un amico per questo? Ridicolo. Non dimenticavo però i rispettivi ruoli». Meglio i giornalisti di allora o quelli di oggi? «I giovani sono più colti di noi, leggono di più. Noi eravamo ossessionati dal lavoro, dopo cena stappavamo un fiasco e restavamo a discutere di articoli». Rimpiange il caso della cronista Janet Cooke che inventò la storia di un bambino drogato e la costrinse a restituire il premio Pulitzer vinto dal Post? «Rimpiango il tradimento di una donna affascinante. Se un cronista inventa non ci sono difese. Sono fiero dei 23 Pulitzer vinti in 25 anni da direttore. Sono fiero di non avere nascosto nulla di quell'incidente». E pochi giorni fa la corrispondente da Miami, colpevole solo di avere ricopiato un'innocente dichiarazione da un quotidiano locale, senza citare la fonte, è stata allontanata in tronco dal Washington Post. Bradlee, meglio il Post o il New York Times? «Mi vuol rovinare? Invidio la loro autorevolezza nazionale, ma si prendono troppo sul serio. Noi ci divertiamo di più». Divertirsi deve essere importante per Benjamin C. Bradlee, patriarca del giornalismo mondiale, se è vera l'ultima storia che si racconta di lui. Il presidente Bush lo convoca per lamentarsi delle critiche ricevute dall'editorialista Mary McGrory. Bradlee ribatte: «Non dico ai giornalisti cosa devono scrivere». Bush insiste: «E se la invitassi a cena, io e lei, a lume di candela?». E Bradlee: «Presidente, non credo abbiate più l'età». Onestà e ironia, sante patrone del giornalista.

[Dall'edizione cartacea del Corriere della Sera di sabato 20 luglio 1991]