Gianni Riotta risponde su La Stampa alla domanda di Giovanni Attinà:

Caro Riotta, 

non voterei nessuno dei due candidati alla Casa Bianca perché sono inadeguati alla carica di presidente. Si registra la decadenza della politica nei due partiti Usa, ma lo stesso vale per l’informazione. Le «battaglie» della stampa di opinione americana non poggiano su programmi o idee di Clinton o Trump, ma sul gossip perpetuo. Eppure in Italia, parlo degli Anni 60, quando avevo i pantaloni corti, era un osanna per l’autorevolezza dei giornali Usa di opinione. Ricordo l’enfasi per Walter Lippmann, indicato come esempio sul modo di informare e di commentare. Adesso evidentemente non è più così. Cordiali saluti 

La risposta di Gianni Riotta: 

Caro Attinà, Lippmann, il gigante del giornalismo che lei ricorda, è scomparso, a 85 anni, nel 1974. Quello è l’anno record della diffusione dei giornali in America, da allora in discesa, ed è anche la data in cui, con le dimissioni del presidente Nixon travolto dalle rivelazioni sullo scandalo Watergate di due oscuri cronisti, Woodward e Bernstein (sullo schermo di Hollywood Redford e Hoffman), la stampa raggiunse il picco dell’influenza politica.  

Lippmann era persuaso che i giornalisti dovessero mediare tra potere e popolo, considerava la gente troppo ignorante per capire le scelte dell’élite e dunque doveva essere informata da una classe di professionisti della comunicazione. Allora milioni di cittadini erano semianalfabeti, venivano da paesi remoti, dalle campagne, eppure non era, si fidi, uno stile perfetto.  

Durante la crisi dei missili a Cuba, il presidente Kennedy propose «laviamo il cervello ai grandi commentatori», Lippmann in cima alla lista, e ottenne da Orvil Dryfoos, editore del «New York Times», di censurare le notizie sull’Urss, come già, l’anno prima, il suo consigliere Schlesinger aveva ottenuto dal quotidiano di New York e dal settimanale «New Republic» il silenzio sui piani dello sbarco a Cuba contro Castro. Il filosofo Dewey criticò subito lo snobismo di Lippmann, auspicando che la stampa ascoltasse l’opinione pubblica, non si limitasse a indirizzarla.  

La disinformazione che domina i nostri, oscuri, tempi di Hillary e Donald non si cura con i colletti inamidati di Lippmann. Non dobbiamo cedere all’ignoranza violenta che domina il web, né ai demagoghi furbi che, per soldi o cupidigia politica, la aizzano. Dobbiamo lavorare come insegnava un altro gigante del giornalismo Usa, Fred Friendly: «Dare alla gente i fatti, perché si formi delle opinioni», sapendo che nell’epoca web anche noi commentatori dobbiamo imparare molti «fatti», rotto per sempre il modello, verticale e aristocratico, dei Lippmann.