Debuttò fra i disastri il presidente democratico John Fitzgerald Kennedy, unico cattolico alla Casa Bianca, che compirebbe oggi 100 anni senza le pallottole del sicario Lee Oswald nel 1963. Il più giovane presidente mai eletto allora, 43 anni, era circondato dai militari che il suo predecessore, il saggio ex generale repubblicano Dwight «Ike» Eisenhower, aveva denunciato come «lobby industrial-militare». Fu quella cricca a intimidire il figlio dell’opulenta famiglia di Boston - il padre Joseph era stato ambasciatore a Londra, in odore di filo-hitlerismo, il nonno materno John «Honey Fitz» Fitzgerald sindaco di Boston e creatore della macchina elettorale che servirà Jfk e il fratello minore, senatore Ted.  

Così Kennedy, dopo il nobile discorso di insediamento il 20 gennaio 1961, «non chiedetevi cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese!», senza giacca malgrado «si gelasse», come annotava lo storico Arthur Schlesinger, diede il via libera al dissennato piano che i duri della Cia avevano preparato per un golpe a Cuba, lasciando sbarcare in aprile alla Baia dei Porci un manipolo di mercenari male in arnese. Finì in rotta vergognosa, Castro consolidò il potere, l’Urss gongolò, Kennedy fece la figura della mammoletta e ne seguì all’Avana una repressione feroce dimenticata dalla storia, centinaia di esecuzioni, inclusi innocenti, guidata di persona dal leggendario «Che» Guevara. 

 

Bollato come playboy  

E non bastò: in giugno, al primo vertice con il leader russo Nikita Krusciov, Kennedy venne sovrastato nella trattativa dall’irruente veterano della battaglia di Stalingrado, sopravvissuto alle purghe Pcus, che lo bollò da playboy viziato. In Congresso i repubblicani, che avevano perso le elezioni con Nixon per un pugno di voti a Chicago (denunciando invano i presunti brogli del vecchio sindaco democratico Daley), forti della maggioranza alla Camera, insabbiavano ogni iniziativa kennediana. Allora, in una serie di colloqui con l’unica persona di cui si fidasse davvero, il fratello Robert Kennedy, nominato in una stagione che non bocciava il nepotismo ministro della Giustizia, Kennedy decise di esser sé stesso, e governare non per compiacere i cortigiani di Washington, ma seguendo l’istinto. 

Oggi il presidente è mitologico, due terzi degli americani lo considerano «un grande» e gli storici lo classificano fra l’ottavo e il tredicesimo posto nel ranking della Casa Bianca. Ma primeggiare non fu facile per lui: l’erede designato, «il presidente dei Kennedy» scelto dall’ambizioso patriarca Joseph, era suo fratello maggiore Joe, scomparso in un incidente di guerra come pilota. Il destino era dunque caduto su Jfk, riluttante al ruolo, preferendo i viaggi in Europa, le belle ragazze, i party del jet-set. In guerra, nel Pacifico, aveva visto il suo motoscafo d’assalto PT 109 spaccato in due dai giapponesi e, malgrado la ferita alla schiena che lo affliggerà per tutta la vita, salvò a nuoto i compagni. Eroe per forza, proiettava un’immagine di salute e carisma, ma era in realtà malaticcio, affetto dal morbo di Addison: costretto a iniettarsi farmaci anche nelle ore d’ufficio con una siringa, si irritò quando un mellifluo burocrate gli chiese «Le fa male, Mister President?», e gli piantò l’ago nella coscia sui pantaloni, «Non so, lei che ne dice?». Il mal di schiena lo tormentava ogni giorno, provava ad alleviarlo con la poltrona a dondolo che divenne sua icona senza però nessun effetto analgesico. 

 

Il blocco di Cuba  

Ora sicuro di sé, il giovane presidente sfidò Castro e Krusciov nell’ottobre del 1962, bloccando con la Marina l’isola di Cuba dove i russi stavano installando rampe di missili nucleari puntati contro l’America. Per 13 giorni il mondo fu sull’orlo della crisi atomica, ma quando il Cremlino cedette - in cambio del ritiro, salva faccia, di obsoleti missili Usa in Turchia - Kennedy divenne Kennedy. Le sue missioni all’estero, incluso un viaggio trionfale a Roma e in Vaticano, furono popolari, anche l’America Latina, a lungo trattata come da colonia, ritrovò in parte dignità diplomatica. Il 5 agosto 1963 Stati Uniti e America firmarono il Nuclear Test Ban Treaty che limitava i test atomici sotterranei e apriva la strada a futuri negoziati: il peggio della Guerra fredda era alle spalle. 

Con la Russia prima nel cosmo grazie al volo dell’astronauta Yuri Gagarin, Kennedy decise di ridare fiducia al Paese con il programma spaziale, promettendo «un uomo sulla Luna entro la nostra decade». Nel 1969 la Nasa mantenne l’impegno, ma il presidente non era più lì a godere il successo. La moglie Jacqueline, i figli che giocavano nello Studio Ovale, Caroline e John John, i concerti alla Casa Bianca, le belle donne - Marilyn Monroe, ammaliante, cantò per lui Happy Birthday - i pettegolezzi, l’ultimo compleanno celebrato sullo yacht presidenziale a corteggiare la moglie del futuro direttore del Washington Post, il suo amico Ben Bradlee, diedero la stura al gossip, che ancora insidia il suo ricordo. 

Altrettanto tenace la teoria del complotto, malgrado la Commissione guidata dal giudice costituzionale Warren avesse provato a dimostrare che Oswald, ex marine filocastrista in contatto con le spie russe del Kgb a Mosca, fosse il solo killer. Nessuna prova decisiva è mai stata trovata, il filmino del passante Zapruder riesaminato in ogni fotogramma, ma la morte repentina a Dallas, nel Texas che lo odiava e lo accolse con manifesti eversivi, ha lasciato il segno dell’utopia sulla «Nuova Frontiera» di Jfk.  

 

Un’America sorridente  

Kennedy apre, malgrado le perplessità del fratello Bob sul reverendo King, la speranza per diritti civili per i neri, Kennedy negli ultimi, convulsi giorni medita sull’inutile guerra in Vietnam. Il tenente di Marina che diffidava dei generali avrebbe chiuso il conflitto sanguinoso? Così affermano i kennediani, dal fantastico redattore dei discorsi Sorensen allo stesso Schlesinger. La Storia non ha risposte univoche, né potrebbe. Ma è proprio la rottura sanguinosa del sogno che mantiene, cento anni dopo, intatto il fascino di «Jack» (il suo diminutivo) Kennedy, con la nostalgia bruciante per un’America sorridente, con gli occhiali da sole, che sapeva farsi amare dal mondo.