Sono entrato per la prima volta nella redazione di un giornale quotidiano da bambino. Giù in tipografia ruggiva la poderosa rotativa König & Bauer, facendo tremare l’intero edificio mentre le bobine di carta giravano, stampando le prime copie. Si lavorava di notte, il giornale appariva in edicola all’alba, e l’ultima edizione, corretta, odorava di inchiostro, con il caffè.

A insaputa di mio padre Salvatore, giornalista, il tipografo Rubino, stretto nel camice grigio, quando la rotativa partiva possente, mi faceva montare sulla macchina, per seguire dall’alto, tenendomi forte al passamano, il nastro infinito di carta biancastra diventar parole, fotografie, titoli a informare la città sul mondo. Mi scuso se uso questi ricordi, per illustrare quanto mi sia commosso per l’ultimo film di Steven Spielberg, «The Post», dedicato ai Pentagon Papers, il dossier segreto sulla guerra in Vietnam che l’allora segretario alla Difesa Usa Robert McNamara aveva commissionato.

McNamara era un tecnocrate, il primo a usare i Big Data, e si accorse presto di come la propaganda che spacciava agli elettori fosse smentita dai numeri sul campo (guardate lo straordinario documentario di Burns e Novick «Vietnam», dell’Hbo). Alla fine un giovane analista, Daniel Ellsberg, rivelò i «Papers» prima al «New York Times», poi al «Washington Post». L’amministrazione repubblicana di Nixon, seguita ai democratici Kennedy e Johnson, provò invano a bloccarne la pubblicazione. I giudici costituzionali confermarono il prevalere del Primo Emendamento, sulla libertà di parola, e con una staffetta commovente le bugie di Washington vennero svelate. 

Il lavoro mi ha fatto conoscere i protagonisti del film. Abe Rosenthal, duro direttore del «New York Times», venuto su poverissimo, il padre ebreo, ex cacciatore di pellicce russo emigrato nel Bronx, morto da operaio in un incidente, con Abe che riesce, miracolosamente, a farsi nominare corrispondente universitario del «Times», dopo aver avuto la tessera del Partito Comunista. Al suo fianco l’editore, «Punch» Sulzberger, detto «il Pugno», ex marine che spesso non condivideva la linea liberal del giornale, provando a equilibrarla, assumendo come editorialista Bill Safire, redattore dei discorsi di Nixon, disoccupato dopo la caduta del presidente.  

Pensate: il giornale dei progressisti, arruola la penna migliore degli avversari. Oggi non si farebbe più, «Pinch», il pizzicotto, Sulzberger, il figlio di «Punch», o il nipote adesso in carica, sono attenti all’America polarizzata, dove ciascuno, pro Trump o anti Trump, ascolta dai pulpiti online e tv il predicatore di riferimento e basta. 

Appaiono poi gli eroi del «Washington Post», il direttore Ben Bradlee e l’editrice Katharine Graham. Bradlee era diverso dal rivale Rosenthal, un aristocratico «bramino», ex ufficiale di Marina lesto a imprecare alla Braccio di Ferro, la mamma che gli trova un posto da cronista, i party sullo yacht del presidente Kennedy - che corteggia, pare respinto, la moglie di Bradlee -. Quando andavo a trovarlo in redazione era festa, coccolato e ammonito con saggezza: «Fare il direttore è facile. Basta assumere gente più intelligente di te. Il giornale deve essere fresco, croccante, colmo di idee e grazia, mai corrucciati sermoni».  

Il fato aveva inflitto amarezze alla Graham, il marito suicida (come il figlio, pochi mesi fa), l’azienda da mandare avanti senza esperienza. Alla fine amicizie di clan, minacce del potere, paura dei processi non fermarono gli scoop, la verità emerse. Non era un mondo perfetto, al timone per lo più maschi bianchi, lontani da poveri e diversi. Ma lo spirito che animava tutti, raccontare con umile fatica la verità, almeno sforzarsi di avvicinarla con modestia, brilla ancora come Stella polare in questa stagione di fake news, la disinformazione di Stato online.  

La carta si affianca ad altri, benvenuti e capillari, formati digitali, ma la «passione per la verità», saggezza fondamentale secondo il vecchio Aristotele, continuerà, come quando bimbo mi arrampicavo sulla rotativa, a far di questo mestiere un impegno civile, fondamentale per la nostra democrazia.