A cento giorni dai caucuses dell’Iowa, che aprono le elezioni primarie per la nomination democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton appare certa della vittoria nel partito e largamente favorita, l’8 novembre 2016, contro il partito repubblicano. Negli ultimi giorni l’ex First Lady ha stravinto il dibattito televisivo contro il senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, incassato il «non mi candiderò» del vicepresidente Biden (nessuno in realtà, tranne gli «esperti» di Washington, abboccava alla possibile campagna di Biden) e infine, giovedì, ha trionfato al Select Committee della Camera, contro i repubblicani intenti a metterla in difficoltà, legando la strage di Bengasi e la vicenda delle sue mail private.  

 L’11 settembre 2012, a Bengasi, un attacco terroristico nell’anarchia in Libia, uccise l’ambasciatore Stevens, il diplomatico Smith e due collaboratori della Cia e, da allora, i repubblicani accusano la Clinton, Segretario di Stato di Barack Obama, di non aver saputo prevenire la strage e di averne poi occultato le responsabilità, per difendere il Presidente a poche settimane dalle elezioni contro Mitt Romney. Con calma, ironia, trattando i deputati repubblicani dall’alto in basso, come una professoressa con studenti saputelli ma poco preparati, la Clinton ha disinnescato il caso e riunito la base democratica. L’appeal di Sanders alle primarie è proprio nel levar alta la bandiera del partito, lasciando intendere che «Hillary» è troppo moderata, come il marito ed ex presidente Bill, nella stagione dura del dopo crisi, con ceto medio, giovani, operai alle corde.  

Vedere però, per undici ore, la loro campionessa invano braccata dal presidente del Comitato, il deputato del South Carolina Trey Gowdy, ex pubblico ministero militante nel movimento di destra Tea Party, galvanizza i democratici. Gowdy, ossuto, livido per un cerone che non ha retto ai riflettori tv della maratona mentre il make up di «Hillary» era immacolato, ha più volte alzato la voce, «Non avete ancora visto nulla», scambiando la diretta in Parlamento per il suo scranno di pm accusatore nel profondo Sud. Alla fine, ha ammesso, lo sguardo perduto davanti alle telecamere, «Nulla di nuovo è emerso».

Lunedì «Hillary« compie 68 anni, alla Casa Bianca, se eletta, arriverebbe a 69, come Ronald Reagan, ma l’energia, l’arguzia, il sorriso con cui ha guidato l’interrogatorio la rendono «presidential» come non mai. Alla deputata repubblicana Roby, che le chiedeva maliziosa «Ha dormito da sola l’intera notte dopo l’attacco?» la Clinton ha risposto con una schietta risata, dando quell’impressione di forza, di sicurezza in se stessi, senza la quale non si diventa Presidente in America.

Hillary Clinton emana, da sempre, un eccesso di disinvoltura davanti alle accuse e agli scandali, un doppio standard tra la propria condotta e quella generale che ha messo a suo tempo in difficoltà il marito Bill. Priva del calore umano che Bill Clinton suscita, Hillary Clinton si difende con professionalità perfetta: quando un repubblicano la sfida insolente, «guardi pure le sue note», lei posa i fogli sul tavolo, spiana sull’avversario uno sguardo gelido e taglia corto «non mi servono, grazie», battuta da thriller che i suoi elettori apprezzeranno.

La «Hillary» delle mail segrete, incerta su Bengasi, esce dall’interrogatorio monstre catafratta a futuri attacchi. Commentando la sceneggiata del Select Committee, Carl Bernstein, ex grande firma del Washington Post ai tempi dello scandalo Watergate, evoca «la caccia alle streghe del senatore McCarthy, solo allora in Congresso si son visti abusi del genere». Bernstein, che ha scritto una biografia assai critica della Clinton «A woman in charge», di maccartismo se ne intende, i suoi genitori, ebrei comunisti, ne furono vittime.

Lo scontro in diretta tv è stata una sconfitta della politica trasformata in requisitoria da pubblico ministero, per il populismo senza compromessi che, dall’America di Trump all’Europa dei tanti nuovi leader di destra e sinistra, domina la scena. Hillary Clinton, pacata, posata, in guardia, serena, equanime ha segnato un punto per la politica equanime, che prova a guardare al di là delle fazioni, dell’odio partigiano, della denuncia miserabile dei rivali, marchiati tutti come ladri e opportunisti. Un buon segnale, per la sua candidatura e l’America. I repubblicani dovrebbero cambiare marcia e trovare un leader capace di guidare senza bava alla bocca: lezione indispensabile anche in Europa.