Mentre l’Europa emette timidi segnali positivi sull’occupazione, il tanto atteso recupero italiano è rimandato. Questa in massima sintesi la situazione descritta dai dati sull’occupazione e la disoccupazione diffusi da Istat e Eurostat la scorsa settimana.

Nell’arco di un anno, il tasso di disoccupazione è diminuito in 22 Stati europei. Tra questi colpisce il dato della Spagna che pur mantenendo un tasso superiore al nostro paese (23,9%), ha fatto registrare uno dei decrementi più marcati (1,9%). L’Italia invece ha conosciuto l’incremento del tasso di disoccupazione più elevato d’Europa (0,9%).

 

Variazione annua del tasso di disoccupazione 

Variazione annua del tasso di disoccupazione

A novembre i disoccupati italiani ammontavano a 3 milioni e 457 mila, il 13,4% della forza lavoro.Il ritardo italiano può essere motivato dall’attesa da parte delle aziende dell’entrata in vigore del nuovo contratto a tutele crescenti il cui vantaggio normativo si abbina all’incentivo economico previsto dalla Legge di Stabilità. Questa la spiegazione preferita dal Governo, a cui è facile ribattere che il trend dei nuovi disoccupati tra novembre 2013 e novembre 2014 (264 mila in totale) è stato visibilmente più marcato a partire da giugno. Indice questo che la prima parte del Jobs Act, quel decreto Poletti entrato in vigore a marzo 2014 e ormai dimenticato dai media, ha avuto effetti contenuti per lo meno sul volume complessivo del mercato del lavoro.

 

Si trattava invero di una misura emergenziale, volta a favorire le assunzioni incerte e contenere così gli effetti della deflazione sul mercato del lavoro. Per questo motivo il governo è intervenuto poi sulla flessibilità in uscita con l’introduzione del contratto a tutele crescenti. Una previsione coerente con la ratio della flessibilizzazione in ingresso e presentata come il vero elemento incentivante della ripresa.

 

Gli esperti hanno però già messo le mani avanti: è infatti possibile che l’effetto delle nuove norme che renderanno vantaggioso il tempo indeterminato si traduca in una sostituzione di contratti già in essere, non contribuendo al miglioramento dei dati quantitativi.

Inoltre, come risaputo, ma mai sufficientemente ricordato, il confronto tra la disoccupazione dei paesi è solo relativamente indicativo perché la disoccupazione varia con la composizione della forza lavoro, comprensiva di quanti iniziano a cercare un’occupazione, pur senza trovarla.

 

Per questi motivi è molto più utile concentrarsi su altri dati che individuano i problemi a lungo termine del mercato del lavoro italiano.

Più preoccupante del tasso di disoccupazione generale è la disoccupazione di lunga durata, perché segnala l’inadeguatezza del sistema di politiche attive che pure sarebbe uno dei polmoni di quella flexicuritycui il disegno della riforma renziana vorrebbe contribuire.

Sempre a questo riguardo un altro preoccupante indice dell’inefficienza dei servizi al lavoro italiani è il funzionamento del programma Garanzia Giovani, sinora incapace sia di attrarre l’auspicato numero di iscritti, sia di prendere in carico entro il termine promesso di 4 mesi i giovani registrati.

Situazione grave soprattutto se si considera che un altro trend di lungo periodo che continua ad essere crescente è quello del dualismo tra outsider e insider. Come osservato da Confindustria, in Italia ci sono sempre più occupati anziani e sempre meno giovani.

Il continuo invecchiamento della popolazione attiva fa della sostenibilità economica del welfare del futuro la sfida più impegnativa, soprattutto in un paese come il nostro dove così basso è il tasso di occupazione.

Come ha sottolineato più volte il prof. Michele Tiraboschi, il cuore del problema Italiano è tutto qui: solo circa 18 milioni di italiani, ossia meno di un terzo della popolazione, percepiscono uno stipendio, e ogni lavoratore si trova quindi a mantenere la previdenza e l’assistenza di quasi due persone oltre sé stesso. E se i lavoratori giovani sono sempre meno, è evidente che il cane si morde la coda.

La conclusione resta comunque la stessa: l’Italia è l’unica delle economie strutturate europee a non essere ancora uscita dalla fase recessiva. E’ quindi più dal piano della ripresa economica che da quello normativo che può provenire l’impulso all’occupazione. Non per nulla questa consapevolezza era il tratto che aveva suscitato commenti più favorevoli alla prima versione del Jobs Act di Renzi, che faceva coincidere la sezione dedicata ai “nuovi posti di lavoro” con la previsione di singoli piani industriali dedicati a singoli settori strategici (Cultura, turismo, agricoltura e cibo; Made in Italy; ICT; Green Economy; Nuovo Welfare; Edilizia; Manifattura).

Di questi piani industriali sostanzialmente non si è più sentito parlare, mentre il Jobs Act ha infiammato gli animi sul tema dei licenziamenti. La chiave polemica dell’articolo 18 probabilmente avrebbe avuto la meglio comunque, ma avere dei piani industriali di cui discutere avrebbe per lo meno evitato di far riporre speranze sproporzionate nelle connessioni tra normative e livelli occupazionali.