Per la trasmissione Parallelo Italia di Rai Tre stiamo girando il nostro paese da Nord a Sud. E abbiamo parlato con politici, intellettuali, imprenditori, sindacalisti, lavoratori, pensionati, ragazzi. I dati che ieri lo Svimez, storico centro studi sul Mezzogiorno, ha fornito, mi hanno lasciato senza fiato. Il lavoro nel Sud è ai livelli del 1977, quando io cercavo un'occupazione. Le nascite sono declinate al livello di metà Ottocento, gli anni di Garibaldi, dei Mille e dell'Unità d'Italia. Ci sono 700.000 disoccupati in più dai giorni della crisi 2008, tra le donne la disoccupazione è più alta che in Grecia e, per dirla semplicemente, il nostro Mezzogiorno se fosse indipendente sarebbe nei guai assai più di Atene. Poche aziende di eccellenza non bastano a risollevare un quadro fosco. Meno turisti che le Baleari, in Sicilia, spesso meno che in un centro della Riviera Romagnola. La classe politica dirigente divisa, litigiosa, mediocre. I migliori giovani con la valigia appena possono verso il Nord, l'Europa, gli Usa, l'Australia. Nessuno parla di questa emergenza, in tv è difficile imporla, l'ex premier Romano Prodi dice "nessuno in Italia si commuove più per il Sud", come se ci fossimo tutti rassegnati, al Nord con scetticismo, al Sud con rabbia. E tutto questo al netto della malavita organizzata che non cede di un pollice.
Di chi è la colpa? Spesso si ricordano le cause lontane, lo sfruttamento e la cupidigia dei Borboni, un Regno d'Italia che con i Savoia ha perpetuato la pratica neocoloniale, mancanza di risorse, l'emigrazione, arretratezza culturale, il logoro "familismo amorale" di Banfield (quando manca lo Stato, o è ostile, è naturale, al contrario di quel che credeva Banfield stringersi alla comunità più prossima, la famiglia: Grossman spiega che lo stesso accadeva nell'Urss di Stalin). Spesso si cita, a ragione, il freno velenoso imposto dalle mafie.
Eppure, dopo 70 anni di riforme agrarie, investimenti a pioggia da Roma e Bruxelles, welfare, assunzioni pubbliche, spesa ingente per infrastrutture che -come dimostra l'artista Andrea Maso nel suo studio su "Incompiuto siciliano" non vengono ultimate-, queste spiegazioni, scuse direbbe qualcuno, non bastano più. C'è nel Mezzogiorno una rassegnazione a non entrare nei ritmi, spesso brutali, del mondo contemporaneo, che i nostri antenati, capaci di integrarsi con successo ovunque nel pianeta, non avrebbero condiviso e avrebbero criticato. Rassegnazione tra i giovani, scetticismo, cinismo e narcisismo tra gli intellettuali, che non spronano, non indicano speranze e obiettivi, ma si crogiolano nei soliti clichés sull'Old South. Tra politici e imprenditori, nella cosiddetta classe dirigente, di nuovo con rarissime, preziose, eccezioni, la gestione grottesca dello status quo impoverisce il Sud di ripresa, di futuro, di sogni. Nell'opinione pubblica, tra i cittadini, il peso di una crescita economica che manca da oltre una generazione induce rabbia, risentimento, populismo che se la prendono con "la Casta", ma non innescano alcun progetto di rinascita. Se il Sud vuole uscire dalla nuova povertà in cui ricade deve attrarre investimenti, tecnologie, servizi, lavoro digitale, la ricchezza del nostro tempo. Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud, Bangalore in India, il triangolo industriale del sud degli Usa a Raleigh, erano in partenza altrettanto, se non più poveri del nostro Sud. Ma sono cresciuti non abbarbicandosi al passato con nostalgia e paure, ma abbracciando il futuro e il presente come i nostri antenati seppero fare. Il Sud che ho visto non è il Sud in cui sono cresciuto, e solo una riforma morale ed economica immediata può cambiarlo. Il tempo manca, presto potrebbe essere troppo tardi.