“Give Greece a Chance”. Così due mesi fa un editoriale di Bloomberg secondo cui“L’uscita della Grecia dall’Euro sarebbe un disastro per lei e per i suoi creditori”. Secondo l’agenzia oggi la Grecia sarebbe ancora più vicina all’uscita dall’Euro di quanto non lo fosse nel 2012. Un'affermazione che potrebbe uscire legittimata dalla riunione dei ministri delle Finanze ieri a Bruxelles che ah visto delinearsi una sorta di muro contro muro.

I titoli dei giornali di questi giorni somigliano in effetti molto a quelli del 2012. Questa volta ad essere oggetto di un negoziato tra la penisola ellenica e l’Europa è la modulazione del programma di aiuti, avviato proprio tre anni fa.

Il programma di rifinanziamento si concluderà il 28 febbraio è vi sarebbe quindi poco tempo per raggiungere un accordo per la sua estensione. Dopo questa data infatti Atene tornerebbe autonomamente sul mercato senza risorse sufficienti per gestire il debito del 175% del pil.

La proposta di compromesso formulata giovedì scorso a Bruxelles dall’eurogruppo aveva sostanzialmente preso tempo sino al nuovo vertice di ieri.

Il ministro greco Yanis Varoufakis spingeva per l’istituzione di un «piano ponte» che i capi di Stato europei avevano rifiutato convertendo la posta in gioco in una proroga dei patti già stipulati.

Secondo quanto ipotizzato il programma attuale avrebbe potuto estendersi di sei mesi, con gli stessi vincoli e qualche vaga concessione sull’avanzo primario (ora al 5%) e riforme, forse concordate con l’Ocse.

Un proposta verso la quale la Grecia ha scelta la linea dura, definendola ieri “assurda e inaccettabile”.

Nonostante le aspettative sul nuovo incontro di ieri, Junker aveva già avvertito che un un accordo non sarebbe arrivato in tempi brevi. E così si va verso un possibile nuovo Eurogruppo venerdì prossimo dove, come ha auspicato sempre ieri il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici, è ipotizzabile un accordo per l'estensione del piano (se non altro per ottenere la base giuridica dei rapporti), in cambio dell'apertura da parte dei paesi rigoristi a un nuovo programma da avviare più avanti, magari in primavera.

Il neo capo del governo greco Alex Tsipras si troverebbe comunque in una posizione di imbarazzo dato che il programma elettorale con il quale ha conquistato oltre il 65% dei voti escludeva estensioni del presente piano d'austerità, che vincolerebbe la Grecia anche a una spending review di 2,5 miliardi. Il “patto” con gli elettori mirava anzi alla cancellazione di parte del debito greco e a un aumento di spesa pubblica.

Forse per smorzare il brusco impatto con la realpolitik europea Il ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias da Berlino, prima del vertice di settimana scorsa, aveva avanzato l’intenzione di cercare il rifinanziamento nelle disponibilità di Usa, Russia o Cina.

Se l’Europa compie continui sforzi di equilibro tra rigore di bilancio e spazi per la crescita, un sostegno alle istanze greche dopo l’elezione di Tsipras è arrivato anche da Barak Obama e poi dal segretario al Tesoro di Washington Jacob Lew. Segno che lo scenario di una Grecia fuori dall’Euro preoccupa davvero.

E deve preoccupare soprattutto l’Italia, comprensibilmente stretta tra la vicinanza alle richieste greche (riforme in cambio di flessibilità) e il mantenimento dell’unità europea.

«All'Eurogruppo inizia un percorso che spero sia positivo»ha detto Pier Carlo Padoan.

Che l’Italia non sia la Grecia soprattutto in termini di tessuto lo si è ripetuto come un mantra, da quando anche il nostro deficit pubblico si è “scoperto” così problematico. La questione greca preoccupa però l’Italia per due ordini di ragioni.

Sul piano dei rapporti con la Commissione europea la necessità di arrivare a compromesso con la Grecia da un lato fa meglio sperare l’Italia in un “clemenza” del giudizio sull’andamento di bilancio, atteso tra marzo e aprile. D’altronde ai commenti positivi dei leader europei si è aggiunto anche l’Ocse (che, ricordiamo, potrebbe monitorare l’estensione del piano per la Grecia), esprimendo approvazione per il cosiddetto jobs act.

Dall’altro lato proprio l’attenzione ancor più catalizzata sulle riforme degli Stati rischia di mettere l’Italia in difficoltà ora che quelle istituzionali rischiano di subire un ritardo o addirittura di saltare. In questo contesto proprio i decreti del JobsAct e della delega fiscale sono suscettibili di un ulteriore allungamento dei tempi.

La sfera che preoccupa però ancor più direttamente il nostro Paese è quella finanziaria, dove l’esposizione italiana verso il debito Greco arriverebbe secondo alcune stime (proliferanti in questi giorni) a 61,2 miliardi. Secondo il recente calcolo fatto da Barclays, il legame finanziario del nostro paese con la Grecia è composto da 10 miliardi di prestiti bilaterali, 27,2 miliardi con il fondo salva Stati, 4,8 come quota dell'operazione Securities Markets Programme del 2012 e 19,2 per il sistema di compensazione tra banche nazionali.

Lo ha già riassunto chiaramente Stefano Lepri su La Stampa: l’Italia ha dovuto contrarre un debito aggiuntivo per gli aiuti alla Grecia, con un costo a persona più alto di quello della Germania (22 euro contro 17). Si tratta di un credito che con l’uscita della Grecia dall’euro, l’Italia rischierebbe di perdere tutto. Sarebbe una perdita più alta in percentuale sul pil rispetto a quella di Germania e Francia.

Finora la troika ha tenuto a sottolineare come le flessibilità concesse fossero quelle già previste dai trattati. Draghi lo ha assicurato durante la conferenza stampa sul QE, e in generale anche Cristin Lagarde è stata perentoria in un intervista a Le Monde: «Non si possono creare categorie speciali per questo o quel Paese». Questa volta è stata poi lei a ripetere che l’urgenza è quella delle riforme degli Stati. E’ proprio sullo scambio tra queste e la flessibilità operata che fa ormai perno la perimetrazione minima comunitaria, Il bordo d’esistenza dell’UE dentro il quale la Grecia cerca di farsi spazio.