L’Italia 2.0 s’è desta. Oltre la metà dei cittadini usa e frequenta il web, i giovani vivono online giorno e notte. La migrazione dei cittadini – chi vive nelle metropoli accede a Internet più di chi risiede in zone rurali - non lascia il deserto nei media tradizionali.

Malgrado i lamenti da bar sulla noia tv, il 99% degli italiani, tutti cioè, guardano la televisione, mentre tantissimi, 83,9%, ascoltano la radio. La tv addirittura guadagna audience, lo 0,9%, nel 2011. Per i giornali la strategia è nitida, dalla carta al web. Il pubblico ha desiderio di informazione, notizie, approfondimenti, commenti, ma gli under 25 preferiscono seguire gli eventi sul web. Lì vanno cercati come individui, lettori e consumatori da testate e pubblicitari.

I dati di una nuova ricerca del Censis timbrano il passaporto digitale del nostro Paese confortando chi ha scommesso sul lavoro digitale. Non esiste un «popolo del web» alternativo a un popolo di «giornali e tv», è l’Italia intera, anziani e ragazzi, occupati e no, ceto medio e lavoratori, destra e sinistra, laici e cattolici, che siede al computer o, sempre più spesso, segue i link via smartphone. La percentuale maggiore del 62,1% di italiani online è giovane, benestante, residente al Nord e nelle città. Ma la «cittadinanza digitale», dieci anni fa appena del 27,8% meno di un italiano su tre, cresce in ogni gruppo sociale e geografico. Presto l’Italia online coinciderà con l’Italia tv: 100%. Il «popolo del web» siamo noi.

Buone notizie dunque, ma perché l’Italia arrivi ai livelli di integrazione digitale totale – come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud - rimangono vari passi da compiere. Il digital divide, la mancanza di accesso alla rete o un cattivo accesso per carenza di banda, è male tecnico, economico e sociale. Ma se le aziende, Confindustria, la scuola, i laboratori di ricerca, le start up, il sindacato vogliono davvero «fare squadra» sul web per il lavoro e lo sviluppo economico, occorre impegnarsi sulla «qualità dell’accesso». Non solo migliorando il wi-fi, permettendo collegamenti gratuiti e «sociali» in aree ampie del territorio, ma razionalizzando domanda e offerta: insegnando, per esempio, agli studenti come si studia online; a chi lavora come usare la rete da università aperta per l’aggiornamento; a chi lancia innovazione e start up come trovare «mentor», partner maturi e mercati, a prima vista, irraggiungibili.

Che nessuno degli italiani, per sesso, età, residenza o ceto voglia più restar fuori dal web è positivo: ma l’Agenda Digitale che il premier Monti, con i ministri Passera e Profumo intendono lanciare è il solo network sostenibile dell’innovazione. Le grandi società di comunicazione e informatica, storiche e nuove, Telecom, Wind, Fastweb, 3, Vodafone, i grandi marchi della generazione computer, Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook, devono riconoscere nell’Italia 2.0 non solo clienti per i loro prodotti, com’è naturale, ma occasione di crescita comune. Il capitale umano e civile che il web fa lievitare è ricchezza parallela per le aziende e le comunità.

Lungi dal cannibalizzarsi a vicenda infatti, gli old e i new media coesistono. Tv, giornali, libri si integrano a web, siti, blogs, radio e tv online, Youtube, Twitter. A questo «crocevia mediatico» l’informazione di qualità può ritrovare pubblico e mercato pubblicitario, in un «business model» sostenibile fino al 2020. I dati Censis confermano le ricerche internazionali Pew e lo slogan di Hal Varian, il capo economista di Google: il futuro dei giornali è «Innovare, Innovare, Innovare».

Ogni innovazione ha però una zona d’ombra. Il Censis segnala nella corsa al digitale italiano la possibilità che i cittadini frequentino solo siti, blog, giornali che offrono punti di vista a loro graditi. Pericolo noto, già i motori di ricerca ci indirizzano a contenuti omogenei ai nostri gusti e opinioni, grazie ad algoritmi, filtri di analisi che ci ripropongono i consumi, o le letture, già fatte. Esiste il pericolo del «solipsismo della rete»? Sì, ma senza esagerare: già nell’Ottocento i cittadini si informavano con le testate politicamente affini, e nel Novecento gli studi di Lazarsfeld hanno dimostrato come, pur da informazioni conformiste, i lettori sappiano trarre spunti critici. A Mosca, ai tempi dell’Urss, si «interpretava» la Pravda in cerca di notizie vere.

Non dobbiamo mai attribuire al web le nostre colpe: la polarizzazione politica, in Europa e in America, precede, non segue Internet. In meno di tre anni la rivista The Atlantic s’è chiesta se il web ci renda «stupidi», «ignoranti», «solitari». Ora, riprendendo un commento del Wall Street Journal e ricerche della Columbia e Pittsburgh University, The Atlantic si interroga perfino se il web ci renda «maleducati, aggressivi e volgari». Fatica inutile, non rompete lo specchio se non vi piace il volto che vedete riflesso. Il Censis conferma: il web siamo noi. Internet non è macchina del Bene, né fucina del Male, è l’immagine reale del nostro tempo. Che l’Italia ci sia, tra opportunità e rischi, è indispensabile.