Un marito, ex Presidente degli Stati Uniti accusato di adulterio, chiama il suo vecchio partito ad eleggere la propria moglie, prima Presidente donna alla Casa Bianca. La moglie del primo Presidente afroamericano parla alla stessa appassionata Convenzione, ricordando con voce rotta cosa sia stato per lei vedere le figlie crescere in quella monumentale casa «costruita da schiavi». 

I cinici lamentano la politica americana ridotta a Dynasty, i Bush, i Kennedy, i Clinton, i Cuomo, ma al podio della Convention Democratica di Philadelphia il mondo ha visto una scena che solo l’America può offrire. Una candidata alla presidenza, Hillary Clinton, il suo partito democratico e metà della grande repubblica di 320 milioni di cittadini, provavano insieme a sollevarsi sul peggio del passato. Tradimento e sconfitte politiche per Hillary; scandali delle mail rubate da hackers russi e guerra civile con il socialista Sanders, corruzione e lobby per il partito; terrorismo, crisi economica, troppo sangue in piazza per il Paese. 

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LA PATRIA DI ROCKY  

A Philadelphia, patria di Rocky Balboa, irriducibile pugile cuor d’oro di Stallone, è nata una stella, dura e generosa, la First Lady Michelle. Otto anni fa era considerata troppo spigolosa, disse sventata «l’elezione di Barack è la prima volta in cui mi son sentita fiera del mio Paese». Ora incanta, in un fantastico abito blu elettrico, l’America, ammonendo che la Casa Bianca, «costruita da schiavi», è ora abitata dalla famiglia del primo presidente nero, testimonianza di progresso, dolori, conquiste, sacrifici. E indica in Hillary l’esempio per le proprie figlie, «considereranno normale che una donna sia Presidente» dopo un afroamericano. 

Anche il giovane senatore del New Jersey, Cory Booker, accende i delegati evocando qualcosa che in Europa - e in Italia ahimè - nessuno mai evoca, siamo tutti insieme figli del nostro passato, senza esclusioni. Booker, nero, si appella «ai padri costituenti» che giusto qui a Philadelphia hanno intinto l’inchiostro per firmare la Costituzione 229 anni fa, malgrado i suoi avi li servissero da schiavi.

Anche Bernie Sanders, ribelle socialista che solo ora si unisce al partito democratico, fiuta l’aria, ripone il rancore con il clan dei Clinton e la famiglia Obama (ha partecipato al progetto di un libro dal titolo «Saldi e svendite» sui fallimenti di Obama). I suoi sostenitori, che in aula fischiano e sull’asfalto rovente, almeno prima del tornado che allaga la sala stampa, vestiti come i fricchettoni italiani 1977, canotte lasche e sandali, chiedono galera per Hillary con lo stesso grido di Trump, ingoiano la bile. La magnifica attrice Sarah Silverman, sanderista doc, li sprona dal podio «Se dite “O Bernie o Morte” siete ridicoli!». Sanders, astuto, negozia la nomina di Hillary per acclamazione.

La staffetta Michelle-Hillary, due First Lady, la prima candidata Presidente di un grande partito e la stella che il partito adesso sogna di lanciare, raccoglie un’America che è l’opposto di quella, pur seria e con problemi reali, che Donald Trump ha invocato alla Convenzione repubblicana, terrorizzata da Isis e criminalità. Nella storia gli elettori Usa scelgono sempre il candidato più ottimista, e ottimismo è il messaggio della strana coppia Michelle Obama e Bill Clinton, sostenuto perfino dalla senatrice radicale Elizabeth Warren, di solito cupissima sull’economia.

La frattura del Paese resta poco comprensibile per gli europei (anche se in Italia, scrive Ian Bremmer, Hillary è a +38% su Trump). I bianchi, ceti ed etnie da sempre privilegiate in America, hanno record di pessimismo, e son tentati dal fosco richiamo di Trump, persuaso che il Paese sia in decadenza. Le minoranze, ispanici, neri, asiatici, che pure hanno conosciuto il morso della schiavitù e del razzismo, son persuasi, come Michelle e Barack, Bill e Hillary, che il meglio del Paese sia ancora davanti, nel futuro, non nel passato. 

Hillary Clinton, la secchiona di Yale che si innamora di «quel vichingo di Bill», la repubblicana ragazza di Chicago, la moglie del governatore che in Arkansas deve cancellare il femminista cognome del padre, Rodham, invisa ai conservatori, l’attivista che nel 1994 vede umiliata la propria riforma sanitaria e poco dopo legge ovunque la storia del marito con la stagista, lo salva e poi diventa senatrice, segretario di Stato e candidata alla Casa Bianca, è pura «America» alla Rocky, alle corde e al tappeto nel ring, volto tumefatto, arbitro che conta, in piedi, riscossa, trionfo.

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VOLARE ALTO  

Le dinastie democratiche di Philadelphia scommettono sull’America che tiene duro, come Rocky, fedele al motto che Michelle insegna alle figlie quando qualcuno diffama il padre: «Quando gli altri scelgono il fango, voi volate in alto». L’America ha tempo fino a novembre per decidere quale dei due candidati vincerà, ma non ci sono dubbi quale sia il messaggio più solare per i nostri tempi bui. Guai però a ignorare l’ira di milioni di trumpisti e sanderisti: sarebbe la fine di ogni Dynasty, in rissa perenne.