Un presidente Donald Trump insolitamente pacato, capace di evocare «gli americani che sognano…la casa, il cuore, il destino, la bandiera che condividiamo…in questo Campidoglio, monumento vivo del popolo americano», per 80 minuti, lunghezza record superata nell’ultimo mezzo secolo solo da Bill Clinton, ha parlato al Paese nel discorso sullo stato dell’Unione.

Come al recente summit del World Economic Forum, a Davos, Trump ha smorzato i toni duri dell’inaugurazione, gennaio 2017, quando citò la «carneficina» di una nazione preda di degrado urbano, miseria economica, fallimento strategico.

Ora Trump elogia la riforma fiscale, suo maggior successo in Congresso, il calo della disoccupazione, la Borsa che vola, «forza e rispetto» ritrovati all’estero con i rivali Cina e Russia, e la crisi nordcoreana con il dittatore Kim Jong-un che rallenta le manovre militari e riapre il dialogo con i sudcoreani. Insomma il Trump «normale» che il best seller del giornalista Wolff «Fire and Fury» giura impossibile, e che lo staff di Washington, dal capo di gabinetto Kelly, ai ministri Tillerson e Mattis, al consigliere McMaster sogna di creare.

La risposta dei democratici è stata sprezzante, affidata al Kennedy di quarta generazione, il deputato Joe Kennedy, capelli rossi irlandesi e attacco diretto a Mosca per le ingerenze nella democrazia Usa. Ma l’opposizione resta divisa, con il senatore socialista Sanders, guru della sinistra democratica, a parlare online a ridosso del giovane Kennedy, specchio di un partito incapace, perfino nei giorni dello shutdown, la crisi del budget, di trovare unità, spento il carisma di Barack Obama.

Eppure non basterà il Trump suadente di Davos e del discorso di martedì sera a smussare l’aspra crisi politica Usa. Il Congresso è una trincea, dove i repubblicani adesso difendono il presidente - il consulente Frank Luntz, a lungo negativo su Trump, annota «gli chiedo scusa, sto con lui, mi ha commosso» - ma i democratici sono adamantini nel no alle intese. Sull’emigrazione l’accordo è ostico, le elezioni parlamentari per i governatori di novembre avvelenano il clima, malgrado taglio alle tasse per le grandi aziende e ripresa economica creino lavoro, anche per i più poveri.

Quando l’ubiquo web smetterà di commentare pro e contro il discorso, con l’analista obamiano Van Jones ad ammettere «mentre parlava del commando Seal caduto in un raid sfortunato, Trump è stato presidenziale», presidente e l’America saranno di nuovo di fronte, senza schermi. Il presidente è impopolare e le sue mosse a ridosso dell’appello al Congresso confermano che Trump resta Trump. I repubblicani hanno approvato un memorandum, accusando Fbi e ministero della Giustizia di agire contro Trump, tirando le fila dell’inchiesta sul Russiagate del commissario speciale Mueller. Per tradizione agenti federali e magistrati restano fuori dal duello militante dei partiti, ma i tempi cambiano. La Casa Bianca agisce solo sulla linea del presidente, come conferma il caso di Victor Cha, designato ambasciatore Usa in Corea del Sud, bocciato in pubblico e senza appelli per aver criticato l’idea di un possibile blitz contro Pyongyang, favorendo invece il patto commerciale con Seul che Trump avversa.

La rotta, da qui al voto di novembre, è segnata, Trump con la sua base a sfidare i democratici e la loro base. I toni meno populisti possono essere utili, ma non bastano a ribaltare il rancore profondo. Solo dopo il voto, chiariti i rapporti di forza reali, presidente e opposizione faranno i conti e, magari, qualche accordo, oggi impossibile.