Skuratov, occhiuto censore dello Zar, non ebbe paura del criptico tomo di economia capitatogli sul tavolo nell’aprile 1872: «Pochi in Russia lo leggeranno, ancor meno lo capiranno». Così il Capitale di Karl Marx ebbe proprio in russo la prima traduzione all’estero, opera del populista «narodnik» Nikolai Danielson e, di soppiatto, il comunismo arrivò nella futura patria della rivoluzione bolscevica 1917.  

Il povero Skuratov sbagliava, a Londra, culla della classe operaia che avrebbe dovuto seppellire la borghesia Marx è isolato, con il fido Engels, nella dispotica Russia, «gendarme d’Europa», il Capitale è invece subito best seller, 900 copie esaurite a San Pietroburgo in pochi giorni. «Mi leggono in Russia come da nessuna parte», gongola Marx: «Ben curioso per me finire campione della Giovane Russia, non sai mai chi ti capita come compagno nella vita». I «narodniki», populisti agrari, credevano che agente rivoluzionario contro l’oppressione zarista sarebbe stato non il proletariato operaio del Manifesto 1848, ma il saggio, fiero contadino slavo dell’ «obšcina», l’antica comune rurale. Marx si lega d’affetto a questi primi seguaci e quando i pionieri del marxismo russo, Plekhanov, la Zasulich, li criticano come «terroristi», li difende con Engels. In una lettera alla rivista russa Annali Patri del 1877, Marx scrive «Forse solo la Russia potrà passare dal feudalesimo al socialismo», senza forche caudine capitaliste, grazie alla cultura slava. Marx ed Engels detestano l’idolo della «Madre Russia», e in mezzo secolo di corrispondenza con i russi, populisti o socialisti, 1846-1895, preconizzano per Mosca una rivoluzione modello 1789 in Francia, moto antifeudale contro lo Zar.  

Arriverà invece il 1917, e non dall’ «obšcina» agreste, da nuclei di militanti, intellettuali, operai, soldati. Il filosofo Isaiah Berlin spiega il salto storico dalla rivoluzione progettata da Marx per l’Europa moderna, alla rivoluzione realizzata da Lenin per la Russia ancestrale, in un saggio del 1994, a Urss dissolta solo da tre anni: se esiste nella Storia un programma politico che abbia soluzione a ogni male, occorre mobilitarsi per raggiungere quel paradiso, chi si oppone è un malvagio e va spazzato «Se necessario con violenza, terrore e massacri. Lenin si persuase di questo leggendo il Capitale…ogni metodo è lecito pur di creare la società felice». 

Cento anni dopo i Soviet, questo resta il paradosso che i saggi intervistati da Francesca Paci per La Stampa proveranno a dirimere. L’utopia di Marx appassiona per primi i russi, che la coniugano però con il fosco dispotismo slavo, considerato da Dostoevskij parabola del male morale. Engels ha come una sorta di visione dell’incubo che travolgerà, tra gulag ed esecuzioni, milioni di comunisti appassionati, in una lettera a Danielson del 1891, «La Storia è la Dea più crudele. Lancia il suo carro trionfale su cataste di cadaveri, non solo in guerra, anche in tempi di “pacifico” sviluppo economico», mentre Marx scrive nel 1881 a Jenny Longuet che «il terrorismo è tipico, e inevitabile, nella storia russa e non c’è dunque ragione di far troppa morale contro…». Quando la «Dea crudele» scatena la rivoluzione bolscevica, però, tanti si entusiasmano. Parte per Mosca il giornalista americano John Reed, il cui reportage di propaganda diverrà classico, con lui ingenui militanti finiti poi in Siberia. Nel meraviglioso Viaggio nella vertigine (Dalai) la rivoluzionaria Evgenija Ginzburg ricorda l’esule comunista italiana, il cui nome abbiamo perduto, che per tutta una notte ulula nella nostra lingua, in cella, il suo dolore che nessuno comprende. 

In Italia Antonio Gramsci, tra i fondatori del Partito comunista, coglie la radicalità bolscevica scrivendo su Il grido del popolo già nel ‘17 «È il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Kant…aveva predicato…È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale...È l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta la luce viene dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale…», come in un Vangelo apocrifo marxista. 

Gramsci, in cella, farà in tempo a ricredersi, ma La forza del mito, così lo storico Marcello Flores definisce il fascino para-religioso del ‘17 in un recente bel libro (Feltrinelli), dura un secolo. Riascoltate le recenti quattro ore di discorso del presidente Xi Jinping al Congresso del partito comunista: «Cento anni fa, le salve della Rivoluzione d’Ottobre portarono il marxismo-leninismo in Cina…il nostro partito nacque solo quattro anni dopo…e da allora il popolo cinese ha nel partito comunista la spina dorsale della lotta per l’indipendenza nazionale, la liberazione, la prosperità e la felicità…». O leggete il nuovo libro della Anne Applebaum (da tradurre!) Red Famine (Carestia rossa): Putin occupa la Crimea contro il «fascismo ucraino», perché ancora ossessionato dalla «crudele lezione del ‘19», quando, muovendo dall’Ucraina, il generale Anton Denikin arriva con l’Armata Bianca a 300 chilometri da Mosca e i bolscevichi si salvano a stento. Non pensate dunque ai Dieci giorni che sconvolsero il mondo come il passato, perché essi ci parlano di presente e di futuro.