Il 18 novembre Isis ha annunciato, sul suo giornale «Dabiq», di avere giustiziato un ostaggio cinese, Fan Jinghui, insieme al norvegese Johan Grimsgaard-Ofstad. Inutilmente sul social media di Pechino Weibo, o sui siti Sina o Phoenix media cerchereste dettagli sulla tragedia, il governo li censura. Bethany Allen-Ebrahimian, di Foreign Policy, compulsa però il sito Freeweibo, che raccoglie i post cancellati dalla polizia, e scopre reazioni rabbiose «Isis vuole guerra alla Cina? L’avrà!», «Se il governo non attacca Isis il popolo si farà sentire!». La Cina, per Isis «uno stato che opprime i musulmani», ha una rivolta islamica in Xinjiang e almeno 300 jihadisti in Siria, eppure anche il formidabile presidente Xi Jinping teme i fondamentalisti e la sua prudenza fa da specchio alle incertezze occidentali.

Il partito del non fare 

Mentre il web gronda di strateghi da blog che sanno come deporre il Califfo e pacificare le banlieue, in realtà né Europa, né Stati Uniti, né Russia o Cina hanno in mano nulla, se non «strategie negative»: non far guerre unilaterali come Bush, non considerare tutto l’Islam terrorista, non rinunciare alla privacy per la sicurezza, non credere basti la guerra, non mandare truppe in campo cadendo nella trappola di al Baghdadi, non far affluire risorse finanziarie al terrore, non isolare la Russia, non… non… non… 

Quando però si passa al «Che fare?», titolo del vecchio romanzo di Cernyševskij che ispirò Lenin, le opzioni scemano. La grande alleanza con la Russia di Putin è un miraggio. Da oggi il presidente francese Hollande farà la spola per persuadere Mosca e Washington a collaborare, ma il dittatore Assad resta nodo insolubile di divisione. Putin sarebbe esasperato con l’Iran che non collabora a stabilizzare il Medio Oriente, ma il presidente Obama non crede alle sue aperture. Conclude amaro il colonnello Keith Nightingale, veterano del Vietnam e del controspionaggio «La campagna aerea alleata», battezzata con un roboante Tidal Wave II in ricordo dei blitz della Seconda Guerra Mondiale, «ha risultati modestissimi». Né la diplomazia, che gli analisti europei vorrebbero non finisse in naftalina, ha chances reali, «Isis non accetta negoziati, trattative, né è corruttibile».

Quali opzioni  

Le carte militari sono altrettanto ridotte, e le elenca per il blog di Judy Dempsey, Carnegie Europe, Andrew Michta, dell’U.S. Naval War College: 1) La campagna di fanteria deve provare a eliminare i santuari del Califfo tra Siria e Iraq; 2) Usa e Ue sono restii all’uso di truppe e dunque toccherà a una coalizione di curdi, egiziani e giordani intervenire, con truppe occidentali «embedded» ad assistere, senza infiammare passioni jihadiste, con solo un discreto impegno Nato; 3) sgominate le basi serve una lunga fase di ricostruzione, finanziata da Usa e Ue e gestita da nazioni locali; 4) l’opinione pubblica occidentale deve avere ambizioni modeste, non si tratta di ridisegnare il Medio Oriente, solo togliere profondità alla jihad; 5) purtroppo, perfino queste strategie minimaliste sono ardue e quindi si continuerà con raid, spettacolari e inutili, un po’ più di collaborazione di spionaggio e polizie. Michael Shurkin, di Rand, è persuaso che le forze speciali francesi lanceranno raid di rappresaglia, senza risultati efficaci. Ieri Telegram, il sistema di sms criptati usato da Isis, ha chiuso i canali «ufficiali» jihadisti, quelli occulti continuano indisturbati. 

 

Colpire l’economia  

Da più parti si vuole stroncare il contrabbando del petrolio, che frutta a Isis un milione e mezzo di dollari al giorno. Obama ha, fin qui, preferito non distruggere gli stabilimenti, per non azzerare la futura economia dell’area ed evitare vittime civili. Ora la campagna s’intensifica, ma, contrariamente all’opinione diffusa, il commercio del petrolio è solo la terza voce nel miliardario bilancio Isis. Un rapporto Rand 2015 calcola che, se dal petrolio i terroristi ricavano 100 milioni di dollari l’anno, 600 arrivano da ricatti e tasse imposte agli otto milioni di cittadini che vivono sotto il loro governo.

Come un clan mafioso Isis estorce un pizzo su ogni transazione nei territori occupati, facendo pagare tasse esose su acqua, luce, trasporti, nettezza urbana. L’economia gira via tunnel resistenti alle bombe, come la rete vietnamita dei Cu Chi o le gallerie di Gaza, un sistema scoperto alla caduta dei centri di Baiji e Sinjar. 

Qui il cerchio si chiude, perfino per strozzare le finanze di Isis servirebbe scacciare i jihadisti da Siria e Iraq. 

Non ci sono purtroppo opzioni «facili», servono tutte le idee, vedendo cosa funziona e cosa no, e accettando con lucidità che, in questa prima fase del conflitto, il vantaggio è del Califfo.