Punch, cazzotto, era il soprannome di Arthur Ochs Sulzberger, leggendario editore del New York Times scomparso ieri a 86 anni. Ex marine che aveva combattuto nella Seconda guerra mondiale e in Corea, tre mogli, una casa nell’elegante East Side di Manhattan, capace di sfidare la Casa Bianca del presidente Nixon pubblicando nel 1973 i Pentagon Papers , le carte segrete che incriminano la politica militare di Washington in Vietnam, Sulzberger non imparò mai ad usare un computer, lavorando a una vecchia macchina da scrivere Underwood. Dal 1963, in 34 anni di sua amministrazione come editore prima e presidente poi, Sulzeberger conduce la testata di New York dall’epoca delle tipografie al mondo digitale, dalla bancarotta prossima al debutto a Wall Street, da un giornale influente ma chiuso nella rotta New York-Washington, Economia-Politica, a foglio globale, con recensioni di ristoranti, moda, viaggi.

«Quando andai in guerra con i marines i miei non si preoccuparono troppo» amava ricordare «a scuola ero così testone che pensavano neanche una pallottola mi avrebbe ferito». L’amore per il Corpo dei Marines lo accompagnò sempre, irritando talvolta una redazione antimilitarista. Appassionato all’economia di mercato, democratico e anticomunista contro l’Urss, come John Kennedy, Sulzberger aveva poca pazienza per le quote rosa, che lo costrinsero a pagare arretrati a tante giornaliste, per gli scioperi dei tipografi che negli Anni Settanta quasi gli chiusero il giornale, e la sua redazione, scrivania dopo scrivania di maschi, bianchi, liberal, pur non tutti con la pipa tra i denti come lui.

Ai suoi direttori lasciava libertà, non per vezzo progressista, ma perché cosciente che il pubblico comprava il Times liberal, «Diamo sempre torto alle aziende, per principio», e che troppi freni avrebbero fatto perdere copie in una città che dei sette quotidiani ne aveva conservati ormai solo tre. Litigò col direttore Oakes che voleva appoggiare la femminista Bella Abzug contro lo studioso Daniel Moynihan in una primaria democratica per il Senato e si impose (aveva ragione Sulzberger, Moynihan fu un gigante a Washington). E quando Sydney Schanberg, inviato così famoso per i reportage dalla Cambogia da diventare protagonista del film Urla del silenzio, interpretato da Sam Waterstone, attaccò i suoi amici e lo stesso Times criticando il progetto di un autostrada a Manhattan, lo costrinse alle dimissioni.

Ma nei libri di storia del giornalismo, Sulzberger finisce per due scelte, una manageriale, l’altra politica. Senza di lui il Times non sarebbe diventato globale, appoggiandosi a catene di tv locali e radio, preparando il pubblico con le varie sezioni, Libri, Scienza, Arte, che sono un po’ il Dna del sito web lanciato con successo nel 1996. E non sarebbe ora uno dei pochi quotidiani Usa a scommettere su un futuro – anche di profitti - digitale.
Senza di lui il Times non avrebbe avuto la forza di pubblicare i Pentagon Papers . Un ex funzionario della Cia, Daniel Ellsberg, decise di diffondere, in un’edizione più saggia della fuga di notizie Wikileaks, le carte segrete del Pentagono, che dimostravano come mai gli Stati Uniti avrebbero potuto vincere contro i comunisti di Hanoi. La Casa Bianca minacciò di fare arrestare Sulzberger, i suoi avvocati lo abbandonarono dicendogli che avrebbe di certo perso la causa, amici carissimi gli urlarono che per un ex marine isolare i militari era vergognoso. Sulzeberger andò avanti, pubblicò le carte, fermò la guerra nell’opinione pubblica, vinse lo scontro legale e parò la botta fortissima degli scoop che il rivale Washington Post avrebbe fatto sullo scandalo Watergate. Oggi tra le due rivelazioni, Watergate e Carte del Pentagono, sembra che il colpo del Times sia quello di conseguenze storiche più profonde.

Quando il web arrivò, le copie calarono con la pubblicità, i giovani non comprarono più la monumentale edizione della domenica colma di così tanti inserti, Sulzberger passò la mano al figlio, Arthur Sulzberger junior. Diffidava dei troppi incarichi dati a reporter inesperti, e aveva ragione, la faciloneria del nuovo Times porterà allo scandalo e alle dimissioni del direttore Raines per gli articoli inventati di sana pianta dal cronista afroamericano Blair.

«Un giornale non vende solo notizie, vende giudizi. Su Internet le notizie ci sono tutte e gratis, ma chi sa commentarle?» era la morale di Sulzberger che non aveva esitato, rischiando uno sciopero, ad assumere l’ex collaboratore dell’arcinemico Nixon, Bill Safire, per farne l’editorialista conservatore di punta: Safire al Times vincerà un Premio Pulitzer dei 31 sotto Sulzberger padre.
Il nuovo mondo, che pure aveva preparato. non gli piaceva, il New York Times carino e leggero forse neppure. Punch era il suo soprannome, cazzotto. Quello del figlio Sulzberger jr è Pinch, pizzicotto.