Leslie Gelb dice «Russi, americani, europei e ucraini stanno battendo il record mondiale di venalità, menzogne, ipocrisia e autolesionismo». 

E quando Leslie Gelb parla di «menzogne e ipocrisie» occorre ascoltare. Già dirigente del Pentagono, poi al «New York Times» e presidente del Council on Foreign Relations, Gelb è l’autore dei celebri «Pentagon Papers», i dossier che spiegavano alla Casa Bianca come gli Stati Uniti stessero perdendo la guerra in Vietnam, giusto mentre il presidente Johnson assicurava che la stavano vincendo. Ipocrisia al potere. 

 

Ora Gelb, dal sito «Daily Beast»scrive che l’intera classe politica di Kiev, pro Russia o pro Ue che sia, è corrotta al midollo e rivende ogni accordo diplomatico al miglior offerente. L’Europa della cancelliera Merkel, secondo Gelb, «ha sbagliato tutto» perché offrendo un patto economico all’ex presidente Yanukovich, fantoccio di Putin, ha spaventato il Cremlino, obbligandolo a offrire 15 miliardi di dollari come «carota» per comprare l’Ucraina, trasformati poi in «bastone» dell’occupazione in Crimea quando Kiev si ribella. Per Gelb l’America è altrettanto ipocrita e impotente, perché Bush figlio non mosse un dito mentre Putin sperimentava la tattica in uso in Crimea, attaccando la Georgia nel 2008, e creando i due staterelli pirata di Abkhazia e Sud Ossezia fingendo di avere subito provocazioni dai derelitti georgiani. La Casa Bianca ha approvato la separazione del Kosovo dalla Serbia e non si vede perché Putin non debba ripetere l’operazione in Crimea. 

 

Fin qui la Fiera delle Ipocrisie, e ci sarebbe poco da obiettare alla vecchia volpe della diplomazia Usa, che termina l’analisi condividendo il piano proposto dai veterani Brzezinski, Kissinger e Prodi, «Ucraina libera e neutrale tra Ue e Russia, come la Finlandia». Piano di buon senso che, come spesso capita al buon senso in politica internazionale, vedi i disastri del 1914 con la I guerra mondiale, non funziona, perché Putin, rifiutando le avances diplomatiche tedesche, non vuole l’Ucraina neutrale. Occupa la Crimea, vincerà il referendum farsa, poi annetterà la penisola. Se Kiev - osserva Ian Bremmer, fondatore del centro analisi Eurasia - capirà l’antifona e accetterà di farsi vassalla di Mosca, come i cosacchi nell’antica «Zaporoz’e», bene, se no la «guerra speciale» elaborata in Georgia e Crimea sarà sferrata anche in Ucraina occidentale. Lo stratega John Schindler la sta studiando al Naval War College Usa: squadre speciali senza mostrine russe, intimidazioni, duri discorsi pubblici, occupazioni di territori mentre l’Occidente fa Ponzio Pilato. 

 

Se proponete il dilemma rubato da Lenin al romanzo dello scrittore russo Cernyševskij «Che fare?», a diplomatici e politici la reazione è meccanica «Chi vuole la guerra per la Crimea?» per la scontata risposta «Nessuno, Sebastopoli 2014 come Danzica 1938». Si dà per scontato che la durezza dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton, che paragona Putin a Hitler, sia campagna elettorale per la Casa Bianca 2016 e che le flebili proteste siano quel che resta davanti alle divise verdi in passamontagna. 

 

Tanta mollezza scalda l’ex campione di scacchi russo e attivista anti Putin Garry Kimovic Kasparov, che dal social media twitter @kasparov63 e dalle colonne del «Wall Street Journal» si chiede: ma perché, non c’è nulla da fare tra la guerra mondiale e il nulla, non ci sono sanzioni efficaci? Se Washington, Berlino, Londra, Berlino e Parigi (Roma propone adesso con la ministro Mogherini un «gruppo di contatto», ma sembra più assorbita dalle urgenze domestiche che dalla grande partita Europa dell’Est) usassero la leva delle banche - la ricchezza russa da gas e petrolio si coagula nella City inglese sui traffici degli oligarchi - Putin sarebbe richiamato a più miti consigli dalla classe opulenta che lo sostiene. In realtà la Merkel non vuole antagonizzare Putin e Cameron teme che sia invece il Cremlino a ricattare gli oligarchi, ricordando gli anni di galera inflitti per insubordinazione all’ex finanziere Mikhail Borisovich Khodorkovsky. Quanto ad Hollande, la Francia ha firmato un controverso contratto per forniture militari a Mosca, fatturato un miliardo e 200 milioni di euro, inclusa la formidabile nave portaelicotteri Vladivostock. 

 

Resta Obama. Il Presidente agisce con lentezza, sa di non avere un’opzione militare, ma sa che se Putin, sfrenato, occupasse anche Kiev, scatterebbe un’ora tragica, come per Kennedy nella crisi dei missili nucleari sovietici a Cuba 1962. La Casa Bianca dunque non provocherà Putin, ma il Memorandum di Budapest firmato anche dai russi, garantisce a Kiev, in cambio dell’arsenale atomico sovietico ceduto dall’Ucraina, integrità del territorio nazionale (la vicenda in questo Storifyhttp://goo.gl/VoQyzI ). Washington calcola che, senza i voti dei russi in Crimea, con la paura dei carri armati, quel che resta dell’Ucraina sarà sempre più filoeuropeo, sperando così che l’aggressività di Zar Putin avvicini altri Paesi agli Usa. 

 

La situazione resta apertissima e pericolosa. Svezia e Polonia - il ministro degli Esteri polacco Sikorski è il leader europeo che con maggiore forza denuncia l’invasione della Crimea chiedendo sanzioni - tornano ad armarsi. Ma Usa e Ue non hanno la maestria di Kasparov, giocano ogni mossa in reazione a Putin, senza una vera strategia di lungo periodo. Da lontano guarda tutto questo la Cina, il Paese che teme la deriva post-sovietica del disordine più di tutto, che ha come antagonisti gli Usa nel Pacifico, ma che non può all’infinito tollerare le instabilità seminate, dall’Est Europa all’Asia Centrale, dalla Russia, storico nemico dell’etnia Han. Tante chiavi della II Guerra Fredda passano da Pechino, solo in apparenza lontana da Sebastopoli.