Parigi brucia e la Francia non sa perché, la Francia brucia e il mondo si chiede “quando toccherà a me?”. Per l'islamista Olivier Roy è un “gioco a cowboy e indiani”, il ministro Sarkozy minaccia “guerra alla feccia”, il primo ministro Galouzeau de Villepin usa i roghi nelle cités per scottare il rivale in corsa all'Eliseo. Il presidente Chirac, insolitamente, tace e poi intima “torni l'ordine!”. La colpa è della disoccupazione, 10% nel Paese fino al 50% tra i giovani maghrebini. È il fallimento del multiculturalismo tollerante, no è la rotta dell'integrazione forzosa nella République, tutti uguali, via il velo islamico dalle scuole. Sono gangs criminali, come nel ghetto di Los Angeles 1992. E' il black out anarchico, New Orleans sulla Senna.
C'è chi scambia le auto incendiate in periferia per rivolta di popolo, come i saccheggi di New York cantati dal poeta Balestrini. Il novembre di Parigi 2005 si fa icona, Maggio 1968 in autunno, di cui le opposte teorie, ciniche e sentimentali, non comprendono gravità e profondità di sintomo presago, futuro comune a tutta Europa. Dall'11 settembre 2001 l'Occidente s'è diviso tra due teorie, separate dall'Atlantico ma presenti in America e in Europa. Il terrore si batte con la guerra; no, rimuovendone le cause. C'è uno scontro di civiltà con l'Islam e quanto prima virilmente lo ammetteremo, meglio sarà, dicono i seguaci di Huntington: No, l'Islam è padre della nostra civiltà, come cristianesimo ed ebraismo, ribattono i fedeli di Bulliet. Gli immigranti sono avanguardia di Al Qaeda e vanno a forza integrati o espulsi; gli immigranti sono i veri nemici di Osama e solo una società multiculturale può ospitarli.
Il riverbero dei roghi di Parigi incenerisce queste ipotesi, madrine timide di ideologie caduche, e ci richiama, severo, a una più matura meditazione. Magari il XXI secolo fosse così semplice da dispiegarsi alla dialettica “pace-guerra”, “scontro di civiltà-dialogo di civiltà”, “duri-tolleranti”. Magari. Purtroppo, dalle giogaie dell'Afghanistan, alla subway di Londra, dai ghetti francesi alle scuole di Milano, da downtown Manhattan a Bali, dalla Cecenia a Gaza, dalle madrasse estremiste ai dissidenti iraniani, dai minareti a Internet, il secolo ci pone una sfida che si può superare con blitz e dialogo, sradicando il fondamentalismo e i padrini del petrolio wahhabita, ma alleandosi ai suoi nemici islamici, ovunque. Che la Francia pretenda di assimilare i ragazzi del Maghreb come fossero contadini vandeani del 1789 è futile: certo che i capibanda delle gang vanno arrestati, certo che nel ghetto bruciano le Renault dei lavoratori e le Porsche Cayenne degli spacciatori sono risparmiate, ma un'integrazione che non dà accesso alle scuole d'élites, discrimina in fabbrica e condanna le ragazzine agli abusi e i loro fratelli a barricarsi in casa nelle notti di scontro con la polizia tra molotov e sms, è ipocrita e non funziona. È cruciale difendere il modello culturale occidentale, i valori, le tradizioni, ma la nostra memoria più feconda è la capacità di mutare, di adattarsi al nuovo, migliorare accettando idee diverse.
La debolezza strategica del nemico, parli con il mitra o da un magazzino trasformato in moschea, è l'ortodossia, la purezza sterile, la pretesa di incontaminata identità. Adottandola diverremo rigidi e perciò fragili. Certo che non basta dare un lavoro ai disoccupati musulmani per integrarli. Ma spaventare due adolescenti fino a incenerirli dentro una centralina elettrica — per dar prova di machismo politico — come a Clichy-sous-Bois, è crudele testimonianza di debolezza. Il giudizio non muta se dalla guerriglia urbana di Parigi passiamo ai campi della morte in Iraq. Da tre anni l'Occidente è diviso tra “pace e guerra” e non si accorge di avere perseguito una pace ipocrita e una guerra organizzata da dilettanti, con il risultato di non proporre agli iracheni né un Paese ordinato, né un modello di crescita democratico. Accapigliandosi come capponi di Renzo gli occidentali non hanno visto vantaggi e pericoli di pace e guerra concreti. Lo stesso sofisma ideologico oppone adesso chi, dissennatamente, fa dei disperati delle gang Che Guevara della metropoli a chi, in posa da Tartarino di Tarascona, urla “legge e ordine!”. Il sindaco di Évry guarda i roghi e commenta mesto: “La nostra integrazione è fallita, abbiamo creato un ghetto non una scala sociale”.
I fuochi delle notti francesi si spegneranno, come si spensero infine quelli di Halloween nel ghetto di Detroit. Ma sui due fronti aperti, lo scontro militare contro la rivolta fondamentalista e lo scontro sociale e culturale per creare democrazie aperte, non possono prevalere le ipotesi della sconfitta, duri a oltranza contro imbelli perenni. Ci sarebbe bisogno di forza e saggezza, per isolare i nichilisti e dare a una generazione di esclusi le condizioni umane che non abbiamo saputo organizzare, pieni di boria. Nei leader vediamo millanteria in luogo di forza e opportunismo in luogo di saggezza: e il tempo stringe.