Ho ricordi italiani di un tempo, prender buoni voti in un antico liceo del Sud e sentirli irrisi dai familiari al Nord, «Laggiù vi regalano i dieci». Viaggiare ragazzino in metropolitana a Milano, con negli occhi ancora la devastazione del terremoto del Belice 1968 in Sicilia, e gelare ascoltando due bulli ghignare «Che muoiano sepolti vivi i terroni». Cresciuto, andai a firmare un contratto di lavoro e il vecchio ragioniere, cortese accento settentrionale, correndo il mio luogo di nascita, commentò «Siciliano. Lo sa che abbiam già altri sette siciliani qui?». 

«Magnifico! – ribattei - E quanti trentini? E veneti?». Imbarazzato, il contabile azzittì, rovistando i suoi scartafacci. Tra la mia timidezza da teenager che subiva zitto il razzismo strisciante e la reazione aggressiva del giovane reporter, non era passata solo l’età: s’era messa di mezzo l’America. Studiando alla Columbia University avevo imparato che il razzismo quotidiano, le battute, le mezze volgarità, gli sguardi distolti, possono ferire e umiliare anche senza cappucci e le croci infuocate del Ku Klux Klan. E non vanno, mai, lasciate passare con rassegnazione o indifferenza. 

Questa saggezza politica ed umana, articolata con maestria letteraria, anima Citizen, opera poetica della scrittrice americana Claudia Rankine, tradotta per la casa editrice 66thand2nd da Silvia Bre e Isabella Ferretti. Rankine metabolizza il razzismo della porta accanto, casuale, inoffensivo in apparenza, e svela al lettore quanta pena, quanto dolore, quanto stress costi in realtà. I media segnalano gli adolescenti neri che cadono per mano di polizia e vigilantes, come Trayvon Martin, la strage del nazionalista bianco paranoico Dylann Roof, 22 anni, condannato a morte per aver ucciso a fucilate nove pacifici fedeli, intenti a pregare in una chiesa di Charleston, Sud Carolina, le proteste del movimento Black Lives Matter. Ma chi tiene il conto della sofferenza inflitta alla madre il cui bambino nero è travolto da un bianco frettoloso, nella calca in metropolitana? Chi paga, quando il vicino di casa bianco di una professionista nera, la stessa autrice docente ora a Yale University, chiama la polizia perché vede un suo amico, afroamericano, telefonare davanti all’uscio di casa e teme sia uno scassinatore? Il collega che sbotta «Non sapevo fossi nera!», la vicina di posto in aereo che rilutta a sedersi accanto scambiando posto con la madre, la negazione perenne di un corpo diverso, nero contro bianco, dove si rivendicano? 

Citizen è il dolente diario poetico, mascherato da prosa, della rabbia repressa in bile, per non sentirsi dare del paranoico, dell’estremista, dell’esagerato, «Razzista io? Scherzavo dai, ma se avevo un amico nero al liceo…». Rankine usa le imprese sportive della campionessa di tennis Serena Williams per illustrare la furia soppressa di chi si vede ancora disprezzato, nel paese che ha eletto un presidente nero, Barack Obama, e presume dunque di essersi lasciato il razzismo alle spalle. Serena Williams sa di non potere esplodere in imprecazioni davanti alle ingiustizie di certi arbitri (una giudice di linea venne squalificata, per essersi accanita a un US Open con ben cinque chiamate false, avviando l’era dei sensori elettronici in campo) per non essere accusata, nel mondo ancora candeggiato del tennis, di intolleranza. 

È il doppio passo che ha tradito a tratti lo stesso Obama, mai esploso in uno scatto d’ira che, se sfoggiato da un leader bianco, avrebbe fatto esclamare all’«autenticità sincera». Avvisato che il presidente russo Putin stava manovrando a favore di Trump, Obama non ha mosso un dito, spaventato di «apparire fazioso». Quanta frustrazione dietro questa scelta fatale? Quanto veleno serve perché un «Citizen», un cittadino, diventi la maschera di se stesso? 

Claudia Rankine ha ricevuto la Fellowship MacCarthy, premio che la stampa americana definisce «Borsa di Studio dei Geni», e con i 620.000 euro ha fondato il laboratorio Racial Imaginary Institute, per aiutare gli artisti a comprendere le reciproche esperienze di bianchi e neri, maggioranze e minoranze. Citizen, scrive la rivista New Yorker, doveva evolvere in una pièce teatrale, ma poi l’esperimento di Rankine s’è rivolto a più complesse performances. Quando le chiedono se Racial Imaginary Institute sarà la sua rivolta politica contro il neo presidente Donald Trump, la Rankine replica con elegante fastidio, conscia che la dolorosa dialettica Bianco-Nero che, da due secoli e mezzo affligge il paese, non finisce, né comincia, con i sanguigni tweet della Casa Bianca 2017.