Il successo del documentario italiano «Fuocoammare», ora nominato all’Oscar, è spesso attribuito al tema del regista Gianfranco Rosi, l’emigrazione.  

Dai riconoscimenti di Berlino al plauso del pubblico, deriva una sorta di aureola benefica, «Fuocoammare» va visto perché «parla» dell’exodus disperato degli africani, annegati sulle spiagge che furono delle nostre vacanze.   

A ben guardare, invece, il vero fascino del lavoro di Rosi, la virtù che gli ha conquistato la nomination e che gli offre chance di vittoria davanti al favorito «OJ» di Edelman, è nell’altra metà di «Fuocoammare», paziente cronaca della vita quotidiana dei siciliani di Lampedusa. Mio padre, cresciuto povero in un villaggio di montagna coperto di neve, rideva a ricordare «Sicilia terra del sole? Macché, d’inverno lontano dal mare si gela». E a Lampedusa, dove il mare non è mai lontano, Rosi coglie il grigio dei pomeriggi che il malinconico Lucio Piccolo, cugino del Gattopardo Lampedusa, definiva in un perfetto verso della poesia «Plumelia», «Invernata scialba». 

Scialba è «l’invernata» di Lampedusa per il colore del mare e del cielo, capaci di dare la nausea al piccolo protagonista, per l’incertezza morale del medico, che si prodiga a salvare quelli che lo scrittore Frantz Fanon chiamava «Dannati della terra», consapevole che le sue cure sono minuscola goccia di compassione nel mare della crudeltà. I passanti infreddoliti, il sub che va al lavoro con le nasse in cerca di ricci come un travet verso la metropolitana, gli scolari che non inseguono Super Mario sui videogiochi, ma prede per la fionda come i bisnonni, sono una Sicilia che, a pochi minuti di volo nei charter stracarichi di agosto, sembra ora remota. 

 

Per colorare l’inverno scialbo si cucinano salse di pomodoro «Pic Pac», che la macchina da presa di Rosi va a cogliere in primo piano, insaporite dal verde degli odori colti nell’orto, con una pastasciutta così buona che il bambino la risucchia ad ogni forchettata, con la felicità della celebre scena di Disney, in «Lilly e il Vagabondo». È l’unico dettaglio «cinematografico», nessuna nonna e nessun papà ammodo, come nel cast del documentario, permetterebbe in una tavola siciliana una simile monelleria, senza far risuonare scappellotti. Il giovane dj combatte inverno, cinismo, solitudine, l’ansia di essere avamposto di un’Europa perduta, con le nenie, «U sciccareddu», ballate dei braccianti in dialetto a contestare l’etere al rap. 

È «questo» «Fuocoammare», il racconto dei siciliani in attesa di un domani che non arriva, raccontando le imprese dei nostri aviatori durante la Seconda Guerra Mondiale, a bordo dei loro intrepidi Macchi, che affascina l’America. Spaccata in due dalla politica, atomizzata in micro comunità dai social media, rinchiusa in tribù di sesso, religione, ceto, cultura, storia e geografia, la grande nazione sente una nostalgia terribile per ancestrali legami, reti, famiglia, con nonni e nipoti sotto lo stesso tetto a parlare la stessa lingua. Quando la nonna dialoga con le sue icone nella stanza da letto - scena quotidiana delle mie estati da bambino -, intrecciando culto pagano di Lari e Penati e fede cristiana che l’Europa ha dimenticato e che papa Francesco elogia come «teologia della nonna», sui cinema Usa grava fortissima una nostalgia che Facebook non sa riempire. I romanzi di Elena Ferrante su Napoli, presto in tv, lo «Young Pope» e la «Grande Bellezza» di Sorrentino, «Fuocoammare» trionfano per il rimpianto dell’Italia, Paese che «sapeva» vivere. Chissà quanto tempo ci vorrà perché gli americani capiscano che la loro nostalgia per «quella» Italia perduta è anche nostra.