L'Egitto rimanda a casa il judoka egiziano che si è rifiutato di stringere la mano al rivale israeliano Sasson. Molti media hanno presentato la vicenda come ARABI contro ISRAELIANI mentre, a sorpresa, la squadra di Israele ha minimizzato, sapendo bene come è andata davvero la storia. Una storia che, come quasi tutto in Medio Oriente, è assai diversa da quello che sembra a prima vista e da quel che si dice.

Eccone il retroscena da La Stampa, che anticipava la mossa egiziana di oggi contro Islam El Shehaby
“Il judoka egiziano El Shehaby? Si è ritirato no?”. Occhiali da sole nella giornata estiva, nell’inverno dei Giochi di Rio, sorrisi ma nessuno della delegazione di Israele vuol tornare sul caso, ormai celebre, dell’atleta arabo che si rifiuta di stringere la mano all’israeliano Or Sasson, poi medaglia di bronzo. Sui media sembra un’Olimpiade ruvida per gli israeliani, partita con salve di fischi allo stadio Maracana quando appare la Stella di Davide, alla testa della squadra più grande di sempre, 47 atleti in 17 discipline. All’inaugurazione manca il ministro dello Sport Miri Regev “È Shabbat”, e dal sito olimpico scompare l’icona con i colori nazionali, riapparendo solo dopo proteste. Gli sportivi avviati verso il bus, quella sera, si vedono sbarrare la strada dal dirigente libanese al-Haj Nakoula, non vuole viaggiare con gli ebrei, malgrado si vada a giurare fratellanza universale. Un post su Facebook dell’allenatore dei velisti Udi Gal svela la vicenda, da Israele nessun intervento.
Per capire davvero come vivano gli sportivi israeliani a Rio si deve passeggiare un po’ con “i ragazzi”, i tecnici, gli accompagnatori. “Coca Cola ok, per la caipiriñha aspetto la fine. Vuoi la vera storia? Comincia da ben prima che El Shehaby vada sul tatami contro Or. Sul web del Cairo infuria una campagna violentissima perché si ritiri. Scrivono: “Sarai la vergogna dell’Islam se combatti contro un israeliano. Se perdi sarai la disgrazia di un’intera nazione e di te stesso. Che succede se perdi con un ebreo? Se vinci che ci guadagni, collabori con un paese di assassini?”. Un commentatore tv minaccia “Non illuderti e non ascoltare chi ti sta illudendo, se combatti non farai felice l’Egitto. Quando torni ti tratteremo da traditore collaborazionista””.
Islam El Shehaby, nove volte campione d’Africa, è un fondamentalista salafita, la corrente più estrema dell’islamismo, detesta Israele. Ma la Federazione egiziana, legata al presidente Al Sisi, non vuole incidenti, “Abbiamo ammonito El Shehaby di competere da sportivo con l’atleta di Israele”. Islam è forzato a combattere contro Or, battuto ne rifiuta la stretta di mano, limitandosi a un cenno del capo quando l’arbitro gli impone l’inchino tradizionale.
Sasson gli offre perfino una sorta di High Five, poi si allontana, senza polemiche. Sa che per El Shehaby già esserci è molto, gli israeliani apprezzano la scelta ufficiale del Cairo. Igal Carmi, presidente del Comitato Olimpico di Israele, è franco “Credo che l’atleta egiziano abbia fatto, dal suo punto di vista, la cosa che credeva giusta. È entrato in gara contro la volontà di tanti nel suo paese, lo hanno messo in difficoltà, ha scelto un compromesso”. Yael Arad, primo israeliano a vincere una medaglia olimpica proprio nel judo, rilancia “ È molto importante che El Shehaby abbia deciso di combattere. Come sportivo comprendo la pressione che ha subito e gliene do atto. Spero non corra ora rischi in Egitto”, motivando così il repentino ritiro di El Shehaby.
Tra gli israeliani, a sorpresa, il judoka disprezzato per la mancata stretta di mano passa quasi da vittima e anche il caso di Joud Fahmy, saudita che s’è ritirata nel match contro Christianne Legentil di Mauritius, pur di non combattere al secondo turno contro l’israeliana Gili Cohen, è trattato con cautela: “Se volevano polemizzare, si ritirava prima del match con Gili. La federazione sa che il generale saudita Anwar Eshkzi, inviato di Re Salman e del figlio Mohammed, ha appena visitato Israele, missione rara, importante per il disgelo. Di nuovo è un buon compromesso, piuttosto ci brucia la sconfitta di Gili, speravamo nel podio”.

Quanti cliché scioglie la verità, al sole di Rio. Nella squadra di Israele militano insieme Alexander Shatilov, ginnasta nato in Uzbekistan da famiglia di ebrei russi, e Lonah Chemtai Korlima, fondista di origine keniana arrivata come baby sitter e naturalizzata, mentre il maratoneta Tasama Moogas è etiope. Tutti uniti dunque? No, l’editorialista arabo-israeliano Sayed Kashua annuncia sul quotidiano Haaretz “Me lo ha insegnato mio padre, io non tifo mai per Israele, perché non vanno in campo atleti arabi e la bandiera perpetua le divisioni del paese”. Quest’anno, per la prima volta, i Giochi hanno ricordato gli atleti israeliani sterminati a Monaco 1972 dai terroristi di Settembre Nero. Prima di lasciare chiedo “Problemi con la sicurezza?” e di nuovo risate dietro gli occhiali da sole “Ma sa chi governa tutta la sicurezza, radar, monitor, controlli, perfino gli algoritmi con le telecamere sui movimenti improvvisi della folla qui a Rio? Noi israeliani, con il sistema ISDS, International Security and Defense Systems. Occhi aperti sì, ma sull’antiterrorismo nessuno ci batte…”.