La battaglia in corso contro l’Isis, dalla Siria all’Iraq, ha chiarito, senza che ancora tutti i leader del mondo e buona parte dell’opinione pubblica se ne rendano conto appieno, la posta in gioco e le barricate del nostro tempo. Il presidente americano Barack Obama ha dovuto riconoscere che la guerra sarà lunga e l’esito incerto. La strategia di Bush padre, l’attendismo di Clinton, l’attacco di Bush figlio, sono stati in realtà, al netto delle polemiche sterili e delle propagande contrapposte di allora, solo momenti tattici, caduchi, di una lunga stagione di combattimento. Che gli europei hanno sperato di eludere, che gli americani, eleggendo Obama, hanno cercato di scongiurare, ma che ineluttabile torna a bussare al nostro destino.  

 Il professor Huntington con la sua tesi dello «scontro di civiltà», l’Occidente contro le insorgenze radicali – popolarizzata in Italia dalla prosa di Oriana Fallaci - non ha anticipato con precisione lo scontro.  

 Che non oppone affatto «noi» a «loro», ma divide in una guerra civile il mondo islamico, moderati contro salafiti, sciiti contro sunniti, terroristi contro comunità pacifiche, e offre dunque ai leader dei Paesi democratici, alle Nazioni Unite, la possibilità di creare una vera coalizione, vincente, di idee, valori, armi in campo, con «noi» e «loro».  

 Obama ha colpito le basi in Siria con l’appoggio di varie nazioni arabe, con il sostegno dell’Egitto, con perfino il semaforo verde silente dell’arcinemico di ieri, il dittatore siriano Assad. Battere i terroristi Isis, colpire lo spin off di Al Qaeda, Khorasan, non significa solo difendere America e Europa da attentati terroristici che il network sta preparando. Significa – e il presidente Obama riconosce questa terribile necessità - accettare che c’è nel nemico fondamentalista una irriducibile volontà di battersi che nessuna mediazione, cedimento, corruzione stopperà. È ovvio che serve rilanciare il negoziato tra israeliani e palestinesi, ridurre le ingiustizie sociali e la povertà nell’area, lavorare sulla diplomazia e lo sviluppo. Ma la vecchia tesi che «solo» la pace in Medio Oriente, lo sviluppo, gli aiuti internazionali batteranno il terrorismo è frusta. Anche se tutti questi problemi venissero risolti in 24 ore, domani, la volontà di potenza del fondamentalismo non ci darebbe tregua. È una scelta politica di dominio, il Califfato, che non si arresterà sino alla vittoria o alla sconfitta degli uomini in tuta nera. Dopo i raid aerei verrà anche l’ora delle fanterie. 

 Se dopo il 2001, Europa e Stati Uniti – come pochissimi leader predicarono, e tra loro in Italia Gianni Agnelli - fossero rimasti uniti, Washington e Bruxelles avrebbero meno guai. Anche Obama s’è illuso che la buona volontà bastasse e dopo i precipitosi «indietro tutta» di Baghdad e Kabul torna a battersi per la lunga lena. L’Italia – che è stata in Iraq e Afghanistan - partecipa adesso al riarmo dei peshmerga curdi. Il nostro Paese, leader in Europa, ha le forze e le idee per essere in prima linea con saggezza in una guerra che tutti ci coinvolge. È la sola, dolorosa, strada, verso una nuova era di pace.