“Condannatemi, non importa, la Storia mi assolverà” si vantò Fidel Castro nel 1953, quando, fallito il suo attacco al regime del dittatore Fulgencio Batista, venne arrestato e processato.

Come tante delle gradassate del rivoluzionario cubano, nato nel 1926 e morto a 90 anni a Cuba, la battuta si rivela popolarissima – diventando il titolo di un pamphlet venduto su tutte le bancarelle di sinistra del mondo - ma falsa.

La Storia non assolve “Fidel”, come tutti lo chiamavano a Cuba, malgrado abbia resistito a dieci presidenti americani, allo sbarco maldestro dei reduci organizzati dalla Cia, partiti sotto uno scettico John Kennedy, alla crisi dei missili del 1962, quando il leader russo Kruscev dislocò e poi ritirò testate atomiche dall’Avana, alla fine stessa del regime sovietico che, fallita la “zafra”, il grande raccolto di canna da zucchero con Fidel a usare il machete in prima linea, sovvenzionò l’Isola per anni.

Per generazioni di rivoluzionari, a Cuba, in America Latina, in Europa e nel Terzo Mondo, Fidel resta il barbuto combattente icona di ribellione che, con il Che Guevara – suo fido compagno poi mandato a morire senza troppi complimenti in Bolivia- sfida i borghesi e gli yankee. Per milioni di cubani, i “balseros” costretti ad affrontare il mare su precarie imbarcazioni, Fidel era l’oppressore che li insultava come “Gusanos”, vermi della terra.

Per decenni la migrazione da Cuba alla Florida, con vittime, naufragi, salvataggi all’ultimo istante, è stata una massiccia manifestazione politica di sfiducia contro “Fidel”, un referendum quotidiano di rivolta di un popolo che, nonostante la propaganda, non accettava la repressione, le fucilazioni, la povertà.

Lasciando, sotto il presidente George W. Bush, il potere al fratello Raul, come nella tradizione dei caudillos sudamericani di destra che voleva sradicare da giovane e che ha perpetuato da sinistra, Fidel Castro è riuscito nell’intento di morire al comando, senza che gli americani, i cubani esiliati, e gli oppositori interni, spesso languenti in galera, siano riusciti a sconfiggerlo. La cauta apertura del presidente Obama a Cuba, con il ripristino delle relazioni diplomatiche anche se non ancora la fine completa dell’embargo, lo hanno trovato già a bordo campo.

La sua Cuba, l’isola che, secondo il Washington Post, ha trasformato in “una Disneyland della miseria”, non è più avamposto della rivoluzione che esporta soldati dall’America Latina al Congo e all’Angola, ma luna park di turisti, dove attempati europei e i primi “yankee” prostituiscono ragazze e ragazzi con dollari e euro, come avveniva ai tempi di Batista.

La realtà non ha mai intaccato, agli occhi nostalgici dei suoi sostenitori, il mito di Fidel. Opporsi “all’imperialismo” non basterà all’assoluzione della Storia, ma è stato più che sufficiente per avere l’incenso di sicofanti di ogni grado, fino ai premi Nobel, quando Marquez e Sartre lo elogiavano.

Il giudizio dei suoi compatrioti, come Carlos Franqui, il direttore della prima Radio della rivolta, Radio Rebelde, sarà duro, per sempre, come la rottura con i compagni di un tempo, dai poeti omosessuali tormentati e imprigionati, allo scrittore polacco comunista K. S. Karol insultato come “spia della Cia”.

Tornato di moda con il populismo dei Chavez in Sud America, Fidel Castro muore, malinconico sopravvissuto della Guerra Fredda, giusto mentre l’America si affida alla foga conservatrice di Donald Trump e in Russia predomina l’uomo forte Putin.

Se la morte non l’avesse colto a 90 anni, Castro avrebbe, con la sua spregiudicata malizia tattica, navigato alla grande in questo tempo di caos. Muore sì senza che i nemici lo abbiano battuto, senza che la democrazia sia tornata a Cuba, almeno per ora, ma si appresta a subire, come era tragicamente inevitabile, la dura, perenne, condanna di una Storia che si era illuso di sfidare da ragazzo.