Il periodo di bilanci e previsioni continua ad offrire dati ambivalenti ma tutto sommato incoraggianti. Buone ulteriori notizie giungono ancora da Unioncamere che il mese scorso aveva previsto 8400 occupati in più nel primo trimestre e che ora conta 30 mila imprese in più nel 2014. Dato che indicherebbe anch’esso insieme agli altri l’inversione di rotta già acclamata.

Più interessante però il fatto che i settori con un saldo in positivo siano i servizi, il commercio e il turismo. Dato sufficiente a legittimare, se mai ce ne fosse stato ulteriore bisogno, due temi sempre più forti nel dibattito degli ultimi mesi. Da un lato le istanze dei lavoratori della conoscenza, freelance, partite IVA, dall’altro il sostegno strategico alle imprese innovative.

Le imprese registrate in questa categoria nata con la legge 221 del 2012 (governo Monti) di conversione del Decreto Crescita 2.0 (sezioneMisure per la nascita e lo sviluppo di impresestart-up innovative)  in Italia ammontano ormai a 3208. Tra queste 1272, ossia il 40%, hanno iniziato effettivamente la loro attività nel 2014.  La maggior parte operano proprio nel settore dei servizi (77%).

Chi sostiene che una delle chiavi di un rilancio strutturale dell’economia sarebbe un maggior sostegno a questo settore innovazione  innovazione in ricerca potrebbe essere parzialmente confortato dalla partenza il prossimo 16 febbraio di una nuova versione dell’incentivo gestito da Invitalia, ora esteso a tutta Italia e non più solo al meridione e alle aree limitrofe e L’Aquila. Si tratterà di 200 milioni di euro destinati alle start up di piccole dimensioni, per un finanziamento a tasso zero fino a 1,5 milioni di euro, e comunque fino al 70% dell’importo necessario per il progetto presentato.

Non è certo un’iniziativa che ci avvicina alle economie di mercato dove grandi investitori di mestiere fanno a gara a conquistarsi fette di nuove attività innovative, ma è comunque un buon segnale. Il giovane sottobosco di nuove imprese innovative ha certamente bisogno di opportunità realmente agevolate.

Oltre ai capitali però, una precondizione allo sviluppo digitale è l’investimento in infrastrutture: rimozione sia dei limiti all’accesso di grandi gruppi stranieri sia alla domanda interna di servizi digitali. Prendiamo il caso di Neflix, la compagnia americana di video streaming presente in 50 Paesi nel mondo, che ha chiuso il 2014 con un guadagno di 13 milioni. A marzo dello scorso anno l’Hollywood Reporter aveva attribuito alla mancanza di infrastrutture adeguate il ritardo dell’arrivo in Italia del colosso made in USA. Ad oggi non è ancora chiaro quando Netflix farà il suo ingresso nel nostro Paese e alcuni ipotizzano che la scelta sia stata dettata piuttosto dalla presenza sul mercato già di Sky e Mediaset.

Resta il fatto che secondo diversi report, tra cui lo State of the Internet di Akamai l’Italia presenta una delle velocità di connessione medie più basse d’Europa.

Il Net Index di Ookla colloca invece la banda larga Italia all’ultimo posto in Europa.

Il Governo non ne ha fatto il suo cavallo di battaglia principale, ma non ha trascurato il tema. Lanciando una consultazione pubblica, il 20 novembre la Presidenza del Consiglio ha presentato il piano “Banda Ultra Larga” con previsione di un fabbisogno di 12,2 miliardi di euro, sia pubblici (in parte provenienti dall’Europa), sia privati. L’obbiettivo comunitario sarebbe la fornitura dei 100 Megabit a almeno la metà della popolazione di ogni Stato entro il 2020. In Italia l’obbiettivo più realistico è quello dei 30 Megabit per tutti entro il 2020. Oggi la popolazione coperta a questa velocità è poco più del 20%. Anche di questo si dovrebbe parlare.