Per comprendere le parole pronunciate ieri a New York dal premier Mario Monti al Council on Foreign Relations - «Un proseguimento della premiership? Se ci dovessero essere circostanze speciali, che io mi auguro non ci siano, e mi verrà chiesto, prenderò la proposta in considerazione… ma non prevedo che una seconda occasione sarà necessaria» (così la traduzione dall’inglese dell’Ansa) - occorre ricordare in che sede si trovava il presidente del Consiglio, a chi parlava e quale codici e linguaggi sono in uso nelle antiche stanze della Pratt House. Il Council, considerato il più influente think tank, istituto di ricerca, sulla politica estera, è stato fondato nel 1921, dopo che il presidente Wilson aveva chiesto a 150 esperti di aiutarlo nel primo dopoguerra. Da allora il Cfr ha mediato tra Casa Bianca e mondo nei momenti cruciali, con il celebre articolo firmato «Mister X» da George Kennan, che sulla rivista del Council, «Foreign Affairs», disegnò per mezzo secolo la politica di «contenere» l’Urss, con i discorsi dati nella palazzina della 58th strada da Clinton e Bush, con i seminari offerti al presidente Eisenhower di cui si diceva «quel che sa di economia l’ha imparato al Council».  

Tra quelle biblioteche in ciliegio ci si è divisi su Vietnam e Iraq, si è preparata l’apertura alla Cina di Kissinger e Nixon, si discutono le strategie del XXI secolo.  Forse, per capire che significa parlare al Council, vale anche un piccolo aneddoto personale di qualche tempo fa, quando un leader italiano incontrò i soci per un meeting riservato. I giornalisti vennero allontanati e quando mi videro al mio posto, i collaboratori dell’oratore, con garbo mi chiesero di seguirli. Risposi, con un filo di imbarazzo: «Mi spiace, sono membro del Council, posso restare, ma sono tenuto ad osservare la regola dell’off the record», delle riunioni aperte si può parlare, delle riservate no, senza confondere cronache e seminari. Lo staff restò diffidente, ma così funziona il Council. 

Parlando ai top businessmen, finanzieri, avvocati, intellettuali e diplomatici d’America, Mario Monti non ha usato, né poteva, il garbo prudente che deve invocare ad ogni istante della sua avventura politica, circondato da una coalizione che più si avvicinano le elezioni più si fa ombrosa, da siti pettegoli, cronache interessate, analisi «politiche» dove il vero e l’evidente vengono scartati come foglie marce, sfornando «retroscena» senza autorevolezza e credibilità. 

È successo qualcosa di insolito nell’Italia esausta da vent’anni di corto circuito politica-informazione, dove, solo Paese occidentale, le dichiarazioni vengono sempre strappate in un nugolo di telecamere e spintoni, ritriturate in virgolettati che poco hanno a che fare con l’originale, per poi esser smentite dall’interessato «frainteso». Davanti ai soci del Council on Foreign Relations, Monti ha detto la verità: se fosse necessario, e lui non crede adesso che lo sia, sarebbe disponibile a una nuova stagione di riforme condivise a Palazzo Chigi, non però candidandosi, visto che è già senatore e sarebbe buffo stare in una lista. 

Chi ascoltava Monti a New York non voleva sapere se «la foto di Vasto» prevarrà su «ABC», se il «Grande Centro» apre a Renzi o Bersani, se Berlusconi si presenta con la Lega o no, se Grillo litiga con Favia o con Pizzarotti. Erano in platea rappresentanti di fondi che investono miliardi di dollari, devono sapere se fidarsi o no dell’Italia dove quei soldi significherebbero lavoro per operai e giovani che non ce l’hanno o rischiano di perderlo. L’America ha esaminato Monti per capire che fine farà l’Italia. Il test al premier - poteva passarlo con A o non passarlo con F, i buoni e cattivi voti Usa - promuoveva o bocciava insieme a lui tutti noi. Al rito del caffè (di solito imbevibile) il commento poteva essere generico «Mister Monti è un gentleman ma troppo caos in Italia, investiamo altrove». Monti ha rassicurato invece che il Paese ce la farà, che ritiene i «tecnici» non indispensabili, che la politica può essere sana, ma che se ci fosse bisogno, per scongiurare l’instabilità, lui c’è. 

Niente di più, niente di meno. La gazzarra che s’è aperta, Viva e Abbasso senza costrutto, conferma l’ansia di troppi in Parlamento. Quale governo avremo nell’aprile del 2013 lo decideranno i cittadini alle urne, liberamente, siamo un Paese democratico (magari speriamo in una legge elettorale non orrenda). Monti non si ricandida da sé, non per astuzia appresa a Roma, il presidente ha dimostrato già davanti all’onnipotente Bill Gates ai tempi dell’antitrust d’Europa di non essere ingenuo. Sa che il valore del suo lavoro è nella cultura del rigore, in riforme non imposte dall’alto, ma condivise da una maggioranza di italiani, soprattutto da quelli in sofferenza nella crisi. L’ha detto, prima che al Council, al Forum Ambrosetti di Cernobbio: risanare l’economia dimenticando i cittadini, come in un laboratorio per esperimenti, scatena solo reazioni populiste. 

Non cercate dunque «retroscena» e «interpretazioni autentiche» nei commenti al discorso di Mario Monti al Council on Foreign Relations. Per quel che ho sentito nelle prime reazioni, gli americani lo hanno preso «at face value», in contanti, niente alchimie. E a chiunque sarà il successore di Monti a Palazzo Chigi, se non ci sarà alla fine Monti II, possiamo dare il suggerimento di parlare al mondo sempre così, «at face value», diretti, e l’augurio di essere ascoltato con il rispetto offerto ieri a «Mr. Monti».