Michele non si è ucciso per il "precariato", non più di quanto Tenco, 50 anni fa, si sia ucciso perché eliminato a Sanremo, nei romanzi Werther e Ortis per amore, nella vita reale lo scrittore London o il poeta Esenin per delusioni. Certo, l'amaro contesto sociale ha un peso, ma leggete riga per riga le sue riflessioni. C'è l'amore e lo sconforto per una vita di coppia amara, e badate più e con più forza subliminale di quanto non appaia a prima lettura. C'è una depressione personale evidente. C'è la solitudine delle grandi aree metropolitane diffuse. C'è la ribellione antica dei giovani ("io sono un anticonformista"), come un eroe di Camus, in battaglia segreta col mondo, o di Dostoevskij "chi vive oltre i 40 anni? te lo dico io, amico, solo gli sciocchi o i ribaldi". C'è la tensione nichilista che cancella ne i "Padri e figli" di Turgenev l'entusiasmo felice del giovane Bazarov.
Ridurre la pena e la fatica di vivere di Michele solo allo stato asfittico della nostra economia -che pure ha, lo ripeto, un ruolo cospicuo nella sua scelta- significa tradirlo ancora una volta. Si angosciava per non essere, come si scriveva ai tempi della rivolta giovanile, letto il filosofo Marcuse, "Uomo a una dimensione". Almeno da morto non sprechiamolo a quello di cui aveva terrore, essere "uomo a una dimensione", leggiamo le sue "Ultime lettere" alla Ortis da cima a fondo, senza schemi in testa e nel cuore, guardando alla sua vita intera. RIP Michele.