Nel corso della storia umana, le potenze hanno avuto molti, diversi, simboli di grandezza per intimidire i rivali, elefanti sulle Alpi, parate trionfali e schiavi incatenati, castelli con bandiere al vento, cannoni sugli spalti, ferrovie fumanti, caccia rombanti da portaerei, capsule spaziali a lanciare beep beep che allargano l’Impero sino al Cosmo. Ora lo status symbol del potere diventa uno smartphone, nel caso della Corea del Nord l’Arirang, consegnato nel corso di una visita alla fabbrica 11 Maggio al dittatore Kim Jong-un.

Hitler, Stalin, Mussolini, despoti del Novecento, hanno perfezionato l’arte del sopralluogo in azienda, tra i campi, negli arsenali militari, fotografati accanto a cannoni, camion, putrelle, mucche, campi di grano. Ora l’immagine di vitalità di un regime passa attraverso la maestria nei new media. Pare che il giovane Kim Jong-un, per dimostrarsi all’altezza dei tempi e dei rivali in Corea del Sud dove il colosso Samsung rivaleggia con Apple in California, abbia elogiato i «megapixel» di Arirang, come una volta si scrutava con orgoglio una fresatrice, un toro da monta, l’ala di un aereo.

Poco importa che lo studioso di tecnologia asiatica Martyn Williams spieghi che Arirang non è prodotto in Corea del Nord ma, con ogni probabilità, ordinato su misura in Cina, per poi lanciare il colpo di scena per la propaganda: erano infatti presenti sia il capo dell’Ufficio Propaganda che il Direttore dell’Agenzia Stampa Kcna. Già un «tablet» sfoderato in omaggio a Kim Jong-un aveva origine cinese e Williams ne fa risalire il software a studi di Hong Kong. Il software di Arirang, il nome viene da una tradizionale canzone locale, sembra invece un clone di Android Google.

Kim Jong-un invita il pittoresco ex asso del basket Rodman a visitare il paese, il leader di Google Schmidt è uno dei pochissimi occidentali che, di recente, ha potuto condurre una missione privata in Nord Corea. Ora, dopo avere straparlato di guerra nucleare con Seul, di imminente attacco, di arsenale nucleare, il regime che non sa sfamare il suo popolo, con campagne ancora coltivate con metodi feudali, finge di stare lavorando a una Silicon Valley sul Fiume Yalu.

Toccherà a chi svolge l’infelice mestiere di North Korea watcher, gli analisti sull’ultimo stalinismo del pianeta, capire (o fingere di capire) cosa stia passando davvero in mente al giovane Kim. Di sicuro possiamo dire che è la tecnologia, ormai, a unire il pianeta. Ieri, in Italia, un tweet critico sulle performances del Blackberry ha scatenato un tifo da stadio, con i fan di Apple, Google, Samsung e i veterani BB a scontrarsi tra loro, come ultras di Juventus, Milan, Inter. Sempre più il tablet che teniamo in borsa, il computer che abbiamo sul tavolo, lo smartphone che ci ipnotizza definiscono il nostro status, come un tempo i jeans Levy’s o Super Rifle, le sigarette Camel o Gitane, l’Alfa Duetto o la Fiat 124 spyder, l’hamburger e patatina contro gli spaghetti al pomodoro, al cinema Hitchcock o Antonioni.

I nostri nipoti rideranno, con rispettosa ironia, di queste nostre manie ma, per adesso, va così. Il telefono non è più solo «la nostra voce», esprime la nostra intera personalità, un tablet, un Pc o un Mac ci danno l’illusione di far parte di una comunità, di condividere uno stile, sobrio o elegante, casual o tecnocratico. Illusione per l’appunto, ma che perfino la paranoica propaganda nord coreana si faccia catturare da quello che il critico Barthes avrebbe definito un «mito d’oggi» e lo studioso di strategia Nye«soft power», potere soffice, indica fino a che punto il tic high tech ci tenga in ostaggio dei suoi chip.