Credevamo che il mercato avrebbe arricchito i poveri, Cina, India, Brasile, senza impoverire noi ricchi d'Europa e America. Credevamo che la tecnologia fosse sorella, Internet una piazza soleggiata dove discutere, negoziare, innamorarsi. Il presidente Clinton aveva creato 10 milioni di posti di lavoro, l’euro era invulnerabile, i buoni del tesoro greci valevano i tedeschi. Credevamo che la guerra fosse finita, la silenziosa, subdola Guerra fredda che aveva logorato due generazioni, tra lunga pace in Occidente e battaglie, dittature e povertà nel resto del mondo. Credevamo che, caduto il Muro a Berlino, un nuovo ordine fosse possibile e la grande coalizione che il presidente Bush padre aveva messo in campo contro Saddam Hussein, sotto la bandiera dell’Onu in Kuwait con italiani, tedeschi, arabi, fosse monito finale ai despoti. Alle Nazioni Unite, per la prima volta, i seggi delle democrazie erano maggioranza assoluta.

Questo credevamo fino al 10 settembre del 2001 e l'entusiasmo per un Terzo millennio libero da fantasmi, ideologie e odio del XX secolo, ci nascose i pericoli. Il populismo che fa saltare il Federal Building a Oklahoma City nel 1995, un terrorista americano contro l’America. Le bombe che i fondamentalisti di al Qaeda fanno esplodere in Africa nell'estate ‘98 contro obiettivi Usa e che non vediamo, distratti dal flirt tra Clinton e Monica Lewinsky. 

La professoressa Condoleezza Rice scrive sulla rivista «Foreign Affairs», primavera 2000: la politica estera di Bush figlio sarà moderata, niente spallate. Viviamo - ecco il nostro comune errore - di futuro, e sul futuro scommettiamo, persuasi che porterà pace, prosperità, integrazione: o che forse la Cina non è entrata nel Wto, dedita ai commerci non le rivoluzioni?
Quando Osama bin Laden, con un perfetto raid di guerra asimmetrica, Davide contro Golia, l’Orazio superstite contro i tre Curiazi, atterra le Twin Towers gentili nel cielo azzurro di Manhattan, colpisce a Washington lo stato maggiore del nemico, il Pentagono, e manca un terzo bersaglio, forse la stessa Casa Bianca, perché i passeggeri dell'ultimo volo kamikaze aprono la I Guerra globale e si lasciano precipitare in Pennsylvania, la breve stagione di speranza si chiude. Dopo la Guerra fredda 1945-1989, arriva l’alba livida del XXI secolo. «Come abbiamo fatto a non vedere?» mi chiese una volta Robert Oakley, lo zar dell’antiterrorismo. Già, come?

Così arrivammo al Giorno che ha cambiato le nostre vite, 11 settembre 2001. C’è chi, come Richard Hass, presidente del più importante centro diplomatico del mondo, il Council on Foreign Relations, sostiene che infine no, l’11 settembre non ha davvero mutato il mondo. Altri sono gli eventi cruciali, la crisi economica 2007, la Cina superpotenza, i social network con mezzo miliardo di esseri umani pronti a discutere su Twitter, abbattere governi via Facebook, vivere la vita un filmato di YouTube alla volta. Lo «scontro di civiltà» che il professore Huntington aveva preconizzato, noi in trincea contro l’Islam, non c’è stato. La vita continua.
Certo la vita continua, i commerci son ripresi, la politica fa chiasso, gli affetti familiari scaldano tutti, tranne i cari delle tremila vittime del 9/11, americani e cittadini di altri 115 Paesi, l’Onu del dolore. 

«Tutto passa» dice lo scrittore russo Grossman, testimone di Stalingrado, lager nazisti, gulag sovietici. Tutto passa, ma passando, ci cambia per sempre. E l’11 di settembre del 2001, a riguardarlo 10 anni dopo, ricordando la cenere soffice che cadeva downtown Manhattan, cemento, carte, cadaveri umani, diventa specchio fatale. Abbiamo visto nuda la nostra immagine, abbiamo incontrato il bene e il male della nostra civiltà senza più maschere. I giorni della tolleranza, Bush che dialoga con i leader musulmani, Obama all’università al Azhar. I giorni dell'odio nel carcere di Abu Ghraib. I giorni dell'unità, il titolo del quotidiano Le Monde «Siamo tutti americani», e i giorni della diaspora, Washington, Parigi, Londra, Roma, Berlino, Madrid a litigare sull’attacco a Saddam del 2003, tra vetrine di McDonald’s sfondate e champagne francese versato nei tombini. I giorni del lutto quando i terroristi salafiti attaccano Nassiriya, Madrid, Londra. I giorni del coraggio, con le forze multinazionali di pace a Kabul da 10 anni. I giorni dell’opportunismo, da Guantanamo ai ricatti su petrolio e dintorni. Lo specchio dell’11/9, immagine della nostra forza e delle nostre idee, delle nostre debolezze e mediocrità, ci ha per sempre cambiati, nel bene e nel male.

In quello specchio, però, hanno dovuto guardare anche i nostri nemici, e ne sono rimasti impietriti, come dalla mitica Medusa. Il califfato sognato da Osama bin Laden voleva cancellare l’incontro tra Islam e modernità, negare diritti, democrazia, libertà, avallare il razzismo di chi dice «Musulmani e democrazia? Incompatibili». Ha fallito, già prima di cadere a Islamabad. In 20 giorni, usando i social network, i ragazzi arabi hanno abbattuto regimi che al Qaeda combatteva invano da vent’anni. La strada è lunga, non c’è neppure narrativa condivisa su quel giorno, la maggioranza dei musulmani, dice uno studio dell'università del Maryland, non crede che le Torri siano state abbattute da al Qaeda (come i faziosi sui nostri siti e talk show). Il carisma di Obama stenta: nel 2008, prima della sua elezione, 10 musulmani su 100 avevano un giudizio favorevole sull’America, dopo tre anni con il Presidente cresciuto in Indonesia, solo otto islamici su 100 amano Washington.

Il vero, radicale, scontro di civiltà è stato, in Occidente come nella «umma», la comunità islamica, tra tolleranza e intolleranza. 12 mila musulmani uccisi in Iraq dagli attentati non hanno reclutato nuovi kamikaze ad al Qaeda, l’hanno isolata. Dieci anni dopo «noi» ci ritroviamo con la crisi finanziaria e la fine dello sviluppo, «loro» con il difficile laboratorio democratico e l’agonia dei dittatori, in Siria e Iran. I qaedisti inseguono lo scacco matto dell’attacco nucleare, persuasi che le nostre democrazie non reggeranno. Dieci anni fa portai mia figlia al primo giorno di asilo, con una piccola compagna in grembiulino. Sono ora due ragazze, due signorine. Ma il papà che teneva per mano l'altra scolara e che chiacchierava con me garbato e fiero, è caduto al World Trade Center, negli uffici Cantor Fitzgerald. La strada per il futuro non cambia, dialogo e tolleranza, forza in campo contro i terroristi irriducibili. Tutto passa, tranne il dolore per chi non c’è più: ma, diceva Eschilo, «per grazia di Dio e nostro malgrado, il dolore si distilla in saggezza».