In un fumetto Anni Trenta del Corriere dei Piccoli, disegnato da Giovanni Manca, Pier Cloruro de’ Lambicchi, scienziato un po’ svitato, inventa l’Arcivernice che, spalmata su qualunque disegno o dipinto, ha il potere di renderlo vivo e concreto, animando la storia di Re, animali esotici, ricchezze ed armi. Al tocco dell’Arcivernice da una pagina, o una tela, diventano realtà.

Il sogno di de’ Lambicchi si chiama oggi «additive manufacturing», originale tecnica di lavoro che permette via printer 3d, stampanti tridimensionali, di creare prodotti a partire da un disegno, anche a distanza. Una stampante 3d può – istruita a dovere da un designer software - realizzare una tazza, una vite, un bicchiere, un giocattolo, come pure un’arma da fuoco. Il printer segue il disegno e, strato dopo strato, produce l’oggetto. L’industria aeronautica delle turbine, ad esempio, usa i printer 3d per lamine così sottili che le macchine normali non riescono a plasmare.

Makers, il nuovo saggio di Chris Anderson, ex direttore della rivista high tech Wired è un entusiastico reportage sull’«additive manufacturing». Che cambierà il nostro modo di lavorare e consumare perché, non fornirà più, come la catena di montaggio di Tempi Moderni con Charlie Chaplin, un prodotto uguale per tutti, ma, come un artigiano medievale, ci darà prodotti ad hoc per ciascuno di noi.

Da questa novità Anderson fa discendere, come è proprio dei guru digitali, una fantastica catena di meraviglie sociali e tecniche che, al contrario delle stampanti 3 d, è poco concreta e, questa sì, molto «Arcivernice». Secondo Anderson la produzione digitale democratizzerà il lavoro, l’ideazione dei prodotti, la società, i centri urbani. Già oggi a New York ci sono aziende che mettono online le idee, siano di ingegneri o di dilettanti, e quando un prodotto ha – come su Facebook - un certo numero di «like», apprezzamenti, va davvero sul mercato. Ai tempi dell’auto Modello T di Ford, ciascuna vettura era uguale all’altra. Nel mondo «additive» ogni prodotto sarà diverso e scelto per democrazia industriale.

Prima che il lettore si lasci trasportare dalla foga di Anderson, legga in parallelo il saggio di Neil Gershenfeld How to make almost anything («Come produrre quasi tutto») sulla rivista Foreign Affairs. Gershenfeld, professore al Massachusetts Institute of Technology, è uno dei pionieri della rivoluzione in corso, realizzando i processi che faranno di ogni casa una fabbrica. E ci mette in guardia: la tecnologia 3d, per quanto affascinante sia vedere nascere sul tavolo da cucina la tazza che abbiamo disegnato da noi, non ha ancora i volumi per essere economica. Vero che un gruppo di studenti ha costruito una canoa con la stampante, ma su dimensioni industriali i conti economici non tornano. I veri metodi di produzione digitale, che rivoluzioneranno il mondo, non finiscono nel tinello, sono quelli usati oggi alla Rolls Royce, o alla Boeing, dove la distinzione tra manager, ingegnere, tecnico e operaio è scomparsa, e il lavoratore torna ad essere «unico» come in una bottega del Rinascimento.

La maratona di iperboli di Anderson ricorda i primi guru del web, certi che internet ci avrebbe dischiuso un mondo felice. Oggi, da Jaron Lanier a Sherry Turkle, sono tutti, in modo perfino esagerato, pentiti. Makers è denso di aneddoti che vale la pena di leggere, pur di non ubriacarsi alla tesi che «il nuovo sarà perfetto»: la strada della produzione digitale, dove la macchina è il progetto e l’hardware il software, sarà faticosa e dura come zappa e tornio per i nostri antenati. La democrazia digitale non deterge il sudore della fatica al lavoro.
Su questo snodo riflette il sociologo Zygmunt Bauman, popolare per lo slogan «società liquida» che, come tanti slogan culturali, da «l’uomo a una dimensione» di Marcuse a «il mezzo è il messaggio» di McLuhan, diventa sexy in fretta, ma rischia di non farci cogliere realtà complesse. In «Communitas Uguali e diversi nella società liquida», una conversazione con Carlo Bordoni, Bauman assume il tono suadente da patriarca che vuole, al tempo stesso, rassicurarci e allarmarci. La comunità ci circonda e sostiene, eppure ci aliena. Il passato ci ammaestra, eppure opprime. Il futuro è una chance che il presente nega: «Qual è la differenza tra comunità e rete? La comunità si impone su di noi, mentre la rete è qualcosa che pensiamo di essere noi a creare, noi abbiamo il controllo, ecco la differenza essenziale» dice Bauman. Non è difficile obiettare che nessuna comunità occidentale, oggi, può distinguersi col bisturi della teoria dalla rete, e viceversa. Nel tentativo di essere chiaro Bauman, come una stampante 3d, finisce col produrre giudizi standard: se sei nato a Carrara sei nato a Carrara, l’emigrazione è fenomeno globale che deriva da fenomeni globali, il totalitarismo non cancella la scelta morale, meno operai oggi lavorano che una generazione fa. Tutto vero, ma un po’ grezzo, bicchiere stampato in 3d.

L’entusiasmo di Anderson e il buon senso di Bauman non bastano a dirci cosa porterà la nuova economia digitale. L’ansia dell’incertezza ci fa scattare nervosi, chi verso i guru del futuro perfetto, chi verso i saggi della rassicurazione accademica. La strada del futuro, con le chances e i suoi rischi, passa però da una dimensione diversa, dalla realtà.