Mio padre ricordava bene il primo incontro con “gli americani”. Abituato dalla propaganda fascista a considerare gli “yankee” dei bruti, vide nella redazione dello Psychological Warfare Branch PWB, che produceva a Palermo la prima radio dell’Europa liberata, 1943, il minuscolo sergente Mikhail Kamenetzky, che, con i piedi sulla scrivania, gli disse ridendo: «Trova nei bollettini qualcosa che al fronte va male per gli Alleati, se diciamo che tutto è ok nessuno ci crede». Mia madre aveva un ricordo ancor più vivo, sfollata dai bombardamenti nella stupenda Cefalù, si allontanò per prendere dell’acqua e si vide sbarrare il sentiero da due giganteschi soldati neri. Sui manifesti di Boccasile i “negri” stupravano (lo avrebbero poi fatto i goumiers marocchini), mia madre ebbe paura. I due militari afroamericani le chiesero solo dove fosse il pozzo, e le regalarono bubble gum e un disco Victory, “In the mood” di Glenn Miller.

Per quella generazione di europei l’America era gli aiuti del Piano Marshall, alleato fidato. Il bravo ambasciatore americano Richard Gardner, da poco scomparso, mi disse invece: «Voi baby boomers siete stati antiamericani».

Lo contraddissi, chi scendeva in piazza per la pace in Vietnam, non si sentiva “antiamericano” ma fratello dei ragazzi caduti nella strage di Kent State University, 1970, lettore dei poeti beat, intento a zufolare “Blowin’ in the wind” di Dylan o “Alice’s Restaurant” di Arlo Guthrie, cittadino de “L’altra America” narrata dalla critica Nanda Pivano.

Questa unità di intenti, idee, interessi economici e politici è finita, per sempre, tra Europa e America e nulla, forza o diplomazia, la riporterà in vita. Uno dei personaggi di Wim Wenders, regista tedesco, lamentava «gli americani ci han colonizzato l’inconscio», ma non era vero, lo scambio era reciproco, i Beatles colonna sonora comune, Franco Rosi maestro di Scorsese. “Il Laureato” del film di Mike Nichols, 1967, sfoga la malinconia su una Duetto Alfa Romeo mentre il musicista Luciano Berio vola a New York «dove la musica di massa diventa musica colta» e Eco, Enzensberger, Allen, Sontag, Chomsky, Marcuse, Bellow, Calvino sono amati su entrambe le coste dell’Atlantico.

La comunità si rompe con la fine della Guerra Fredda, quando il venir meno del pericolo russo e gli anni passati dal Piano Marshall che sfama l’Europa scindono le economie, marcano diversi valori, riaccendono i falò nazionalisti. Non prestate orecchio alle fole spacciate in tv, Washington non si oppose alla nascita dell’euro, ma da allora errori reciproci dividono i due grandi continenti. Gli americani - «che numero telefonico ha l’Europa?» irrideva il segretario di Stato Kissinger - hanno stentato a negoziare con l’Unione, preferendo la diplomazia bilaterale. Gli europei non hanno saputo prender atto delle nuove responsabilità, per esempio continuando a non pagare per la difesa secondo gli accordi del 2% Pil, lasciando la Nato come grattacapo Usa malgrado avessero le risorse per gli arsenali militari del nuovo secolo (qui il presidente Trump ha ragione). Nessun accordo UE riforma il Consiglio di Sicurezza Onu, inchiodato alle statuine di cera delle “potenze” 1945.

Il resto è cronaca, Bush figlio che invade da solo l’Iraq e i leader UE di allora che quasi gongolano per l’errore, tranne Blair, Aznar e Berlusconi, e di lì a poco il cancelliere tedesco Schroeder diventerà lobbista a libro paga di Putin prendendo ostaggio Berlino con il gasdotto trappola North Stream II. Dal Cremlino Putin sarà lesto a innescare simpatie panslave, a destra e sinistra in Italia e Francia, tra gli industriali tedeschi. Il presidente Obama annuncerà la “svolta”, fallita peraltro, verso l’Asia, dimenticando l’Europa. Ogm, fast food, Microsoft, Google, Apple, Facebook, perfino la religione, chiese piene negli Usa e deserte in Europa, aggravano il conto.

E ora? La risposta in un dimenticato discorso di Winston Churchill, Zurigo, 19 settembre 1946 (vedi https://goo.gl/tU3hA9 ): solo gli “Stati Uniti d’Europa” possono contrastare i pericoli del mondo, restando amici degli Stati Uniti d’America e perfino, con raziocinio, dialogare con la Russia. Fallire la sfida difficile del ‘45 non porterà solo alla rottura con gli Usa, ma a odio e razzismo, a conflitti economici e culturali prima, a guerre aperte dopo.