I media cercavano, secondo la moda del tempo, la stretta di mano più virile tra i due leader che fanno della durezza da maschio alfa un brand politico, lo sguardo assassino, l’imbarazzo perdente, ma il primo vertice tra Vladimir Putin e Donald Trump è stato invece classico, politica e calcolo di interessi tra le due superstiti superpotenze della Guerra Fredda. 

Doveva durare tre quarti d’ora ma, alla presenza dell’esperto capo della diplomazia russa Sergei Lavrov e del debuttante segretario di Stato Usa Rex Tillerson, è andato avanti per due ore e un quarto, lasciando ad aspettare il compassato premier giapponese Abe. Temi Siria, Ucraina, manovre militari Nato, Europa, terrorismo, commerci, programma atomico Corea del Nord. A sorpresa le trame del Cremlino durante le elezioni Usa 2016, che imbarazzano Trump, hanno aperto il dialogo, con il presidente a chiedere chiarezza, su mandato dell’intelligence, e Putin a negare ogni responsabilità e rivendicare prove concrete. 

Trump è arrivato reduce dal discorso di Varsavia, dove ha elogiato l’Occidente, con toni che evocano spunti cari anche a suoi critici, gli storici Schama, Buruma e Ferguson, ma che deve conciliare con le tentazioni isolazioniste. Lo studioso di informatica politica Thomas Rid ha ricordato per primo il summit tra Kennedy e Kruscev, 1961 a Vienna, con il neofita presidente dominato dal veterano di Stalin, al punto che JFK confesserà all’amico del New York Times «Scotty» Reston «Kruscev mi ha massacrato». 

Anche ieri la coppia russa vantava esperienza e astuzia davanti al presidente senza background diplomatico e all’ex capo di Exxon che poco comunica con gli esperti del suo Dipartimento. Trump ha dunque giocato in difesa, come nei tempi duri del mercato immobiliare di New York davanti a rivali o pm aggressivi. Ha ascoltato, ha pronunciato le formule che i collaboratori han preparato per lui, formato Power Point senza fronzoli. Tillerson è incerto sulla Siria, vorrebbe Washington e Mosca, in condominio, a controllare Assad, ma alleati medio orientali, parte della gerarchia del Pentagono, compreso forse il ministro Mattis e il consigliere per la sicurezza McMaster, son scettici. Putin è scottato dal raid estemporaneo di Trump contro Damasco, dal jet di Assad abbattuto e ripete, «ogni aereo ostile oltre l’Eufrate è per noi un bersaglio». 

Sull’Ucraina i russi han chiesto pressioni per «il rispetto degli accordi di Minsk», suggerendo che la Casa Bianca elimini, o almeno alleggerisca, le sanzioni imposte dopo l’annessione della Crimea. Per Trump e il suo entourage Ucraina e Crimea non sono dossier caldi, il presidente sperava nel disgelo dei rapporti con Mosca dopo Obama, ma è stretto - e Putin lo sa - dal Congresso, perché la destra repubblicana e la sua base militante, per tradizione, sono anti Cremlino. Putin e Lavrov lasciano allora che Trump alzi la voce sulle ingerenze dei loro hacker per compiacere gli elettori e azzittire i critici, ma si aspettano concessioni, spente le telecamere. 

Per comprendere davvero il primo, ancora incerto, incontro di ieri dobbiamo considerare la strategia di Putin, che dà per scontati imprevedibilità e zig zag politici di Trump, e intende indirizzarli al suo obiettivo centrale, fare della Russia un coprotagonista tra Usa e Cina. Sulla Corea del Nord, quindi, il presidente russo ha ammonito contro ogni escalation militare americano-sud coreana, ma insiste a suggerire che non basterà da solo il leader cinese Xi Jinping per fermare il pericolo Kim Jong-Un. 

Putin è consapevole di quanto il presidente Trump sia pressato, in casa e nel mondo, e si offre come partner affidabile, che però non può mai apparire - anche lui ha un’inquieta opinione pubblica da svezzare, sia pur controllata da media di regime - troppo cedevole. Così chiede che i due centri di spionaggio del Cremlino sequestrati in Maryland sotto Obama siano restituiti alla sovranità di Mosca. A Trump il caso importa poco, nel suo staff i consiglieri ultras Miller e Bannon vorrebbero chiuderlo, ma si preoccupa di irritare servizi segreti e repubblicani, mentre l’ex capo dell’intelligence Usa Clapper definisce in tv “ancora ad alto rischio le due basi”. 

Il G20, ricorda Rebecca Liao di Foreign Affairs, aveva l’ambizione di governare il mondo dopo la crisi finanziaria del 2008 ed ebbe qualche iniziale successo. Ora, con Trump e l’Europa tra loro guardinghi, la Cina ad ambire al ruolo di potenza garante della stabilità, su clima e commercio, il G20 è vetrina di immagine. Kennedy e Kruscev, i maschi alfa di due generazioni or sono impararono, sull’orlo della guerra, a negoziare e vararono infine il primo trattato contro i test atomici. Putin e Trump ripasseranno le due ore di testa a testa, davanti ai consiglieri fidati, contando punti segnati e impressioni, fatte e ricevute, Putin sicuro di sé come sempre, Trump, come sempre, pronto a cambiare strada se il suo istinto lo suggerirà.