Cosa manca al presidente Barack Obama in vista del raid militare contro il regime alawita siriano di Assad? Una strategia: perché colpire, con chi colpire e quale risultato ottenere con il blitz.
Due anni dopo aver parlato di caduta di Assad, un anno dopo avere giurato che l’uso di gas avrebbe scatenato il blitz Usa, il presidente contempla un difficile panorama. Dall’Onu nessun semaforo verde, il flemmatico Segretario Ban Ki Moon attende i suoi ispettori “per fine settimana” e il capo della diplomazia russa, Lavrov, ha già ordinato di bloccare l’iniziativa britannica di una risoluzione alle Nazioni Unite contro l’uso di gas letali, in violazione della Convenzione di Parigi sull’uso delle armi chimiche del 1993.
Il premier inglese David Cameron, unico alleato degli Usa con il presidente francese Hollande a dirsi d’accordo sul blitz contro Assad, è guai dopo la storica sconfitta di ieri notte in Parlamento. Per 13 voti, con un’aperta rivolta dei conservatori, i deputati hanno bocciato il loro premier, che pure aveva promesso un secondo voto prima del blitz: No all’intervento in Siria dall’House of Commons. Un evento straordinario che segnala l’acutezza del momento. L’intelligence inglese afferma di avere le prove che i gas sono stati lanciati dal regime siriano, gli americani concordano precisando di non sapere “chi” abbia dato l’ordine diretto. La Camera dei Comuni nega però a Cameron il via libera, memore dei guai del laburista Tony Blair ai tempi dell’invasione dell’Iraq 2003. E il leader laburista Miliband, finora ai margini della scena, spera in una rimonta di immagine sul caso Siria.

Anche il Congresso americano, non tanto perché davvero preoccupato della situazione in Medio Oriente, ma perché consapevole, come i colleghi inglesi, che la maggioranza dei cittadini vuole lavoro e non guerre all’estero, rema contro Obama. Liberali e conservatori fiutano il presidente in difficoltà e alzano il prezzo. Lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, scrive a Obama per chiedere quel che il presidente non ha, una chiara strategia in Siria, lamentando la scarsa consultazione con il Congresso. 116 deputati, 98 repubblicani e 18 democratici, scrivono invece alla Casa Bianca intimando che nessun raid parta “senza l’autorizzazione del parlamento”. Insomma, sono finiti i tempi del dopo 11 Settembre quando in nome della sicurezza nazionale il presidente aveva mano libera. Obama, incerto, deve trattare.
Paradossalmente il falco numero 1 sembra Hollande, socialista francese, che incassata una cautissima riforma delle pensioni, prova ad usare la forza contro un’ex colonia ereditata dai Turchi, per vellicare l’orgoglio imperiale della nazione, anche se la sconfitta di Cameron lo indurrà a più miti consigli. Ieri, con un tweet da @martadassu la viceministro degli Esteri Marta Dassu ha chiarito la posizione italiana, replicando al Wall Street Journal: dapprima sembrava che l’Italia sarebbe intervenuta solo con un mandato Onu contro Assad, poi nemmeno in questo caso, ora la vice del ministro Emma Bonino conclude che l’Italia interverrebbe con un mandato Onu. Vedremo in che direzione evolverà la nostra diplomazia dopo lo stop di Londra.
Obama voleva, in fretta e furia, lanciare qualche missile cruise Tomahawk contro basi militari in Siria per mantenere la parola data “No gas!” e ammonire Russia, Cina e Iran sulle sue intenzioni in Medio Oriente. Si accorge che Damasco è capitale ostica. Alessandro Magno, nel 333 avanti Cristo, la conquistò con tanto bottino da far ammirare gli storici e richiedere 7000 bestie da soma per il trasporto, incluse 55 tonnellate d’oro e l’intera famiglia dell’imperatore persiano Dario. Molto difficile ripeterne l’exploit con Assad.
Il regime minaccia, con la solita retorica, rappresaglie, il premier siriano Wael Al-Halqi annuncia la tradizionale “tomba per gli invasori” e l’ambasciatore all’Onu Bashar Ja’afari indica in Israele il bersaglio, sul modello del raid di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Altrettanto truculento il generale di Stato Maggiore iraniano Hassan Firouzabadi: “Attaccano la Siria? Israele brucerà”.
Propaganda, ma serve a spaventare Barack Obama, al suo primo, vero, test di politica estera. Un blitz mordi e fuggi, alla Reagan in Libano o alla Clinton dopo l’attacco alle ambasciate Usa in Africa, non sarà facile, la Siria e i suoi padrini, Russia, Iran, Hezbollah, reagiranno in qualche modo.

Discretamente, a Gaziantep, in Turchia, ribelli del Consiglio Militare Supremo e del Libero Esercito Siriano consultano agenti americani per concordare i bersagli del blitz. Il regime alawita di Assad ha costruito molte basi militari in quartieri popolosi e i ribelli non vogliono essere accusati di avere diretto il fuoco contro i connazionali. Dall’inizio della guerra civile l’opposizione non è riuscita ad incidere nel consenso della base di Assad, gli alawiti, ma anche i cristiani restano scettici, temendo i fondamentalisti, i salafiti, al Qaeda e gli altri terroristi infiltrati tra i ribelli. La mappa dei possibili siti da colpire include gli aeroporti di Damasco, Aleppo, Homs e Latakia. Gli inglesi hanno già mobilitato due caccia Typhoons a Cipro, per “difesa aerea”, altri quattro arriveranno entro oggi. Ma Putin –che resta in silenzio sulla crisi in Siria, lasciando la parola a Lavrov per tenere sulla corda Obama- ha ordinato che altre due navi russe incrocino nel Mediterraneo, “in chiave anti sommergibile” dicono i dispacci militari: per rendere più difficile la vita ai sommergibili Usa che monitorano e possono colpire Damasco.
Il dilemma strategico di Barack Obama è così sintetizzato da Matthew Waxman del Council on Foreign Relations “Il presidente deve fermare le atrocità di Assad contro i civili, mantenere la credibilità internazionale evitando che la sua parola perda di peso, senza però che il raid destabilizzi il Medio Oriente, dalla guerra ad al Qaeda alla crisi nucleare in Iran”.

Ci sono momenti in cui un leader non può che giocare d’azzardo, l’“alea iacta est” di Cesare e l’algoritmo del matematico russo Kolmogorov, calcolare quando un semplice rischio è la migliore strategia possibile. Ma nella vita, personale e politica, di Barack Obama l’azzardo non è mai entrato, tutto è frutto di lavoro, talento e pianificazione precisa di ogni mossa, i pro e i contro vagliati al millesimo. Ora non gode più del cerebrale beneficio di “planning”, progettare, deve agire secondo principi, istinto, fiuto, il cervello non basta, servono “guts”, la pancia. Come ne uscirà sarà un capitolo importante del giudizio che la Storia trarrà di lui e non ha troppi giorni, stavolta, per ponderare: aspettare, amletico, tra il sì, il no, il magari, è un modo, forse il meno felice, per decidere.
L’incertezza è un lusso che i profughi siriani in fuga dalle aree di Damasco considerate bersaglio del raid non possono concedersi. Devono agire subito, testa o croce, per loro niente calcoli possibili. Migliaia di famiglie hanno raccolto poche masserizie e si avviano al confine libanese. Chi resta ha la cucina colma di cibo in scatola, pane, acqua, carburante per generatori elettrici, pile per le radio, medicine per gli ammalati e aspetta le scelte dei Grandi.