Il generale della cavalleria sudista, ai tempi della Guerra Civile americana, 1861-1865, Nathan Bedford Forrest non è molto noto da noi. In America, invece, il suo nome è assai popolare, amato e odiato. Padrone di una piantagione, mercante di bestiame e di schiavi in Tennessee, Forrest si arruolò nell’esercito confederato, passando da soldato semplice a generale, grazie alla guerriglia dei suoi cavalleggeri, che gli diedero il soprannome di “Wizard”, mago della sella, nomignolo che ritornerà, tragicamente, nella sua vita.

Gli storici favorevoli a romanticizzare l’epopea della Confederazione e della Secessione ne fanno una sorta di precursore del generale Giap in Vietnam o del Che Guevara a Santa Clara, capace con i raid di colpire, poi ritirandosi alla carica, le truppe federali del presidente Lincoln. Shelby Foote, autore dell’opera in tre volumi “Civil War a narrative” sostiene che la guerra civile ebbe solo “due geni militari, il presidente Lincoln e il generale Forrest”, ignorando i due celebri condottieri, il confederato Robert Lee e l’unionista Ulysses Grant. Foote, gentile accento del Mississippi, canuto, signorile e con pacatezza simpatizzante del Sud natio, era anche il narratore della serie tv cult 1990 “Civil War”, del regista Ken Burns. “Civil War”, trionfante ai premi Grammy e opera di un artista iscritto al partito democratico e nominato per gli Oscar, segnerà dunque per tanti americani la “storia vera” del loro passato e Forrest diventa, per nuove generazioni, un coraggioso cavaliere. Così lo ritrae la statua di sette metri e mezzo a Memphis, nel suo Tennessee, il cavallo coperto di foglie d’oro e rampante, il generale, in foglie d’argento, che, spada sguainata, tira un colpo di pistola alle spalle, verso un invisibile nemico che lo bracca.

Nel dibattito italiano sulle statue confederate, di cui il movimento Black Lives Matter chiede ora la rimozione, sfugge a troppi interventi focosi che quei monumenti non sono affatto “storici” ma, al contrario, del tutto “politici”. Considerate, per esempio, la “storica” statua di Forrest a Nashville. La Guerra Civile finisce, con la resa di Lee ad Appomattox, nel 1865, ma la statua viene eretta nel 1998, 133 anni dopo. L’artista che la disegna si chiama Jack Kershaw, è un nazionalista bianco, razzista e fondatore della “Lega del Sud”. Difese, come avvocato, James Earl Ray, il suprematista bianco che, nel 1968, uccise a Memphis, il premio Nobel per la pace reverendo Martin Luther King. Sommerso di critiche dagli attivisti neri per il colossale Forrest rispose, portando agli estremi la logica corrente in Italia, “Beh, qualcuno deve pure spendere una buona parola per la schiavitù”.

Immaginate di essere afroamericano, di sentire alla radio le cronache della morte di George Floyd a Minneapolis e, sabato, di Rayshard Brooks ad Atlanta, e guidare lungo l’Interstate 65, dove il monumento ha sede, su terreno privato per non essere mai soggetto a contestazioni: come vi sentireste? Moltiplicate la domanda per le decine di licei, campi sportivi, colonne, statue, targhe che il Sud gli dedica, tutte lontane dagli eventi, e poi per tutti i leader e ufficiali confederati, la lista è infinita: come vi sentireste? 

Tanto più che il soprannome di “Wizard”, mago della sella, restò a Forrest quando fondò l’associazione paramilitare razzista Ku Klux Klan di cui fu, appunto, il primo “Wizard”, stregone: le statue marcano una storia falsa, che il Sud fosse ribelle per la libertà, non per gli schiavi; che gli schiavi fossero trattati bene come la Mammy di Via col Vento non abbattuti dai molossi in caso di fuga; che il Sud fosse la terra “dei cavalieri e delle dame”, come nei titoli di testa della pellicola premio Oscar, non sterminata piantagione brutale dove il cotone per i mercati internazionali cresceva sulle lacrime di esseri umani, in ceppi.

Questa è la posta in gioco del dibattito ed è desolante sfugga da noi. Chi vuol discutere della Colonna Traiana, di Churchill o del monumento a Montanelli lo faccia, ma senza farsi schermo ipocrita dietro queste tragedie. Bene fa il presidente Macron a difendere i monumenti francesi nel suo appello domenicale in cui sospende il lockdown post coronavirus, ma gli sfugge, forse per l’”hauteur”, la supponenza, che a volte lo tradisce, che a Parigi non sorgono statue, in marmo o in bronzo, ai tantissimi collaborazionisti francesi dei nazisti sotto il regime criptofascista del generale Petain, epurati nella vergogna dopo il 1945. Se ce ne fossero, sarebbe Macron favorevole a tenerle, per rispetto alla “grandeur”? Lo escluderei. 

Per riportare il dibattito fuori dalle fumisterie, un po’ demagogiche, un po’ sciatte, abbiamo raccolto un’analisi dei dati delle conversazioni social a proposito di Black Lives Matter, condotte in vari paesi. Realizzate dal Lab R&D di Alkemy, in collaborazione con Luiss Data LabCatchy e Deweave, con il coordinamento di Alessandra Spada, le infografiche che seguono svelano come la conversazione sul movimento antirazzista sia davvero globale, vedrete il movimento che inducono influencer importanti, e non politici, come la squadra di calcio della Juventus, il suo capitano Giorgio Chiellini, o la popolare boy band coreana BTS, Beyond the Scene, che, con l’hashtag twitter #MatchedAMillion ha raccolto, in 48 ore, oltre due milioni di dollari (1,78 milioni di euro) in sottoscrizione per le associazioni per i diritti umani. C’è ancora chi crede che “reale” e “online” siano mondi separati, bubbola vecchia, ma possiamo notare come, nella Corea del Sud così commossa dalla morte di Floyd, l’ambasciata americana, malgrado lo scontro in corso tra il presidente Donald Trump e il movimento BLM, abbia acceso luci di solidarietà con gli afroamericani, sorprendendo gli stessi analisti Usa. L’avrebbe fatto, se non avesse sentito tra i coreani tanto coinvolgimento? No.

Negli Stati Uniti i centri della discussione sono Chicago, la città dove il futuro presidente Barack Obama ha debuttato come attivista nei quartieri poveri e dove ha sede la sua Fondazione e Washington, la capitale, dove il presidente, con lo sgombero dei dimostranti dalla chiesa di St. John a Lafayette Square, e le foto Bibbia in mano, ha polarizzato gli animi, perdendo per ora sostegno nei sondaggi.

In Italia, ecco il dato sorprendente che è del tutto sfuggito ai media mainstream, la conversazione si divide, in modo pressoché pari, su tre filoni: Omicidio Floyd, 35,95%; Manifestazioni in Italia, 35,86%; Immigrazione in Italia, 28,19%. La morte di Floyd e il movimento Usa non vengono visti, come accade ai commentatori pur di rango, da evento “americano”, bensì da richiamo alle ingiustizie correnti nel nostro paese, vedi l’hashtag #SoumailaSacko dedicato al bracciante maliano di 29 anni, ucciso il 2 giugno 2018 a San Calogero, nel Vibonese, solo perché raccoglieva rottami per la sua baracca.

L’antica morale “De te fabula narratur”, la favola parla di te, viene colta con attenzione, in modo omogeneo, in Italia, il Nord in prevalenza, ma con tutte le regioni impegnate. I nomi di Trayvon Martin, il ragazzino nero ucciso in Florida nel 2012 da un vigilantes razzista, di cui il presidente Obama disse “Avessi un figlio maschio sarebbe come Trayvon”, di Breonna Taylor, uccisa a Louisville il 13 marzo scorso durante una perquisizione, e di tante altre vittime della polizia vengono citati perché la conversazione social riconosce “la sottile linea rossa” di ingiustizia, che sfugge invece a troppi editoriali. Gli hashtag dedicati a #2giugno, festa della Repubblica, #resistenza #bellaciao confermano quanto non è colto dai leader della nostra sinistra: molti, soprattutto giovani, vedono un comune impegno di solidarietà con i coetanei americani. La presenza di nomi celebri nel dibattito, dal cantante Lorenzo Jovanotti all’ex premier Matteo Renzi, focalizza i dati in questa direzione, come la speculare assenza di altri leader, che dovrebbe portarli a un esame di coscienza.

Nella ricerca, la tecnica della named-entity recognition e l’algoritmo Latent Dirichlet Allocation sono utilizzati per estrarre features innovative dal testo. la prima è utile a “classificare determinate entità (nomi di persona, organizzazioni, etc.), la seconda “utilizza delle distribuzioni probabilistiche per scoprire strutture semantiche nascoste e creare cluster di parole pesate estratte a partire dal corpo dei documenti di una collezione”: non fatevi impressionare dal linguaggio tecnico da data scientist, vuole dire ragionare sul significato di comunicazioni e dialoghi, solo apparentemente lontani, ma in realtà vicini e colmi di nessi, a prima vista invisibili. Per esempio, l’influenza del giocatore di football Colin Kaepernick, che primo si inginocchiò nel prepartita in omaggio alle vittime della violenza, ora frequente bersaglio delle polemiche di Trump, resta forte pur ad anni di distanza dal gesto. Nelle conversazioni Reddit, le “stanze” dei conservatori citano il presidente come scudo politico, e fanno appello alla memoria di David Dorn, l’ex poliziotto nero di 77 anni ucciso durante una dimostrazione a St. Louis, mentre provava ad impedire il saccheggio di un banco dei pegni, nel tentativo di farne, a sua volta, un martire della violenza di piazza. Anche Trump impiega la morte di Dorn per denunciare il movimento. Chiudono il cerchio i richiami al magnate di origine ungherese George Soros, considerato dalle teorie della cospirazione il regista dei disordini e gli appelli al candidato democratico Joe Biden, ex vicepresidente di Obama dal 2008 al 2016, perché guidi il partito alla riscossa e riavvi una stagione di diritti umani.

Leggete con attenzione le ricerche che seguono, ogni infografica è colma di riflessioni, spunti, idee, specchio fedele del momento storico in cui ci troviamo: vedrete che l’Optimus Princeps Marco Ulpio Nerva Traiano, caro ai nemici del movimento BLM che temono l’abbattimento della sua Colonna, può riposare, davvero, in pace. E capirete perché la statua del generale Forrest disegnata dal razzista Kershaw nel 1998 spari simbolicamente all’indietro: vuole colpire, oggi, gli stessi nemici del 1861, libertà e giustizia.