Per il maestro del romanzo thriller Stephen King i suoi romanzi hanno «la suspense di Dickens». Per la critica algida del New York Times Mikiko Kakutani il suo ultimo romanzo, Il cardellino, è «dickensiano». Al Washington Post Ron Charles scrive «nelle sue pagine lo spirito di Dickens aleggia come quello di Marley» nel Canto di Natale. E nell’anticipare in Italia le 543 pagine del Cardellino (tradotto da Rizzoli) per La lettura del Corriere della Sera, Matteo Persivale – un critico raffinato - definisce «dickensiana la vita del protagonista Theo Decker, orfano come Oliver Twist», l’eroe fanciullo del romanzone ottocentesco inglese. 
Ora anche il premio Pulitzer, riconoscimento assegnato ogni anno dopo lunghe discussioni all’ultimo piano della Graduate School of Journalism di Columbia University, sembra decidere che Donna Tartt, 50 anni, nata nel profondo Sud, delta del Mississippi, tre romanzi all’attivo - «Ne scriverò solo uno ogni dieci anni, fino alla morte» - è davvero la nuova Dickens. Che anche il XXI secolo, come il XIX, può avere i feuilleton, romanzi d’appendice avvincenti e senza fine, saghe alla Dickens, I misteri di Parigi di Sue, in Italia le convolute avventure dei Beati Paoli e Coriolano della Floresta di William Galt, pseudonimo di Luigi Natoli.
Del feuilleton («fogliettone», così detto perché occupava la fascia inferiore della pagina dei giornali, luogo grafico rivisitato nel Novecento dal designer Giuseppe «Trevi» Trevisani per Il Politecnico di Vittorini, Il Giorno, Il Manifesto) Donna Tartt usa i luoghi tradizionali, ma con un disorientamento postmoderno. Il protagonista del Cardellino, Theo, passa di continuo dal benessere e apparente sicurezza alla povertà, angoscia e disagio. Tartt ha la capacità di Balzac – ancora più che Dickens - di descrivere le classi sociali di appartenenza come caratteristiche dirette della personalità umana, dote che rendeva l’autore della Commedia umana carissimo a Karl Marx. 

La trama del Cardellino, proprio come nel Dna del romanzo classico, parte dai guai comuni della nostra vita quotidiana ma li intreccia su avventure straordinarie. La Tartt ha venduto milioni di copie del primo e terzo libro, Dio di illusioni e Il cardellino, mentre il libro di mezzo Il piccolo amico ha avuto meno successo, la critica ne ha sempre elogiato la tecnica, volare dal normale all’incredibile. Di che cosa ha paura l’America (e in senso lato il mondo)? Del terrorismo, della caduta sociale dal benessere del ceto medio all’angoscia del precariato, della criminalità, della crescente disuguaglianza sociale, l’ingerenza dello Stato, la crisi della famiglia, le droghe, l’alienazione nelle comunità, la fine della cultura travolta dalla volgarità on e off-line. 
Bene, come Lazarillo de Tormes vaga tra le pene del picaresco paesaggio spagnolo 1554, il Theo della Tartt premiato col Pulitzer ha il papà alcolista, tossicodipendente e giocatore d’azzardo, fidanzato con Xandra strafatta di coca eppure simpatica, la mamma amante dell’arte e nevrotica. Quando un attentato distrugge il Metropolitan Museum, la mamma muore, Theo riceve un misterioso messaggio (un indirizzo, il volto di una ragazza?) e un dono da un anziano in agonia – feuilleton perfetto! - e ruba (ma lo ruba davvero?, seguite la trama pagina dopo pagina…) il capolavoro Il cardellino del pittore Carel Fabritius, lambito dalle fiamme (http://goo.gl/dEJhPm). La Tartt non lascia nulla al caso: se «Theo» è il nome del fratello del pittore Van Gogh, Fabritius era un allievo di Rembrandt e Il cardellino è una delle sue rare opere superstiti (nel 1654, a 32 anni, l’artista muore nello scoppio della Santabarbara di Delft, incenerito con le sue tele).

Sconvolto, sofferente della malattia da stress dopo traumi, «Ptsd», che affligge i reduci da Iraq e Afghanistan, Theo è adottato dalla famiglia dei Barbour, ricchi patrizi di Park Avenue, papà buono almeno finché gli psicofarmaci lo assistono (capita oggigiorno) poi isterico, mamma in apparenza gelida, ma sotto sotto compassionevole. Qui il lettore italiano deve aguzzare lo sguardo per penetrare i significati che la Tartt, con poche pennellate alla Fabritius, tratteggia a ogni pagina. «Barbour», il nome della famiglia di aristocratici americani che accoglie il derelitto Theo, ricorda ovviamente la marca degli impermeabili di lusso inglesi che, dalle trincee della Prima guerra mondiale 100 anni fa arrivano ai guardaroba bene. Ma Haley Barbour, ex presidente del partito repubblicano, amico del clan Bush, è stato governatore del Mississippi, Stato natale della Tartt. A chi segue la politica Usa il nome «Barbour» suona «conservatore, benestante, old money».
La tregua non dura, il padre trascina Theo-Oliver Twist a Las Vegas, dove la Mafia li perseguita a morte, finché la pace non arriva tra colpi di scena e sparatorie, con la maturità, l’arte, il restauro e il fido amico Boris Pavlikovsky, saggio, intelligente: come se la Tartt dicesse, occhio, i migliori americani arrivano da lontano. 
Donna Tartt ha studiato tecniche di scrittura e lettere classiche al Bennington College, dove per un po’ fu fidanzata con lo scrittore Bret Easton Ellis, ma anziché seguirne il «minimalismo» ha preferito il «massimalismo» narrativo: il primo libro si apre con un gruppo di ragazzi intento a riprodurre un antico rito di baccanale, culminato in un delitto. Passeranno dunque altri dieci anni per il nuovo romanzo? King, che di scrittura se ne intende, paragona lo sforzo necessario a un’opera ogni decennio «alla traversata di un oceano in barca a remi, duro e solitario». La Tartt non sembra curarsene, intenta a narrare in appendice le paure d’Americhe, le stesse nevrosi che hanno fatto dare il Pulitzer per il giornalismo al Washington Post e al Guardian per le rivelazioni sullo scandalo metadati Nsa.
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