Uno dei massimi dirigenti dell’intelligence Usa, da poco passato al settore privato, è interrogato a bruciapelo da un conoscente: “Secondo lei, Trump è un’eccezione nella politica americana o rappresenta invece il nostro futuro di populismo e nazionalismo?”. La risposta è accompagnata da un sorriso enigmatico: “Dipende: se Trump perde a novembre contro il democratico Joe Biden resterà un’eccezione; se rivince e governa fino al 2024 sarà la nostra futura vita”.

È straordinario come, a poco più di quattro mesi dal voto per la Casa Bianca, il presidente americano, pur ubiquo nella vita quotidiana del paese e del mondo, resti un dilemma, per sostenitori e avversari. Chi è davvero Trump? Qual è la sua strategia? Cosa spera di ottenere in politica? Sorprende come amici e nemici restino spiazzati dal leader Usa, incapaci di comprenderne infine le mosse. Uno dei grandi misteri della Casa Bianca, dalla vittoria del 2016 a oggi, resta infatti l’arroganza con cui tante personalità di primo livello, progressisti - vedi il Nobel per l’economia ed editorialista del New York Times Paul Krugmano il suo collega Tom Friedman, premio Pulitzer, detestino Trump, senza però saper spiegare perché seduca metà del paese.

Tra i commentatori liberal nessuno usa le categorie di Antonio Gramsci, pur popolarissimo nei campus Usa: come si radica l’egemonia culturale del trumpismo, perché la sua “guerra di movimento” ha frustrato nel 2016 la “guerra di posizione” della Clinton? Di converso, tra i repubblicani, quanti si sono illusi di far da mentore al focoso ex imprenditore di New York, certi di poterlo dominare, grazie all’esperienza e alla cultura ignote al palazzinaro degli hotel kitsch, solo per vedersi in breve scacciati e umiliati?

La lista dei mancati burattinai è impressionante, per lunghezza e prestigio. Il primo segretario di Stato, Rex Tillerson, era l’amministratore delegato della compagnia petrolifera Exxon, terza nella classifica della rivista Fortune dopo i grandi magazzini Walmart e Amazon, fatturato annuo di 238 miliardi di dollari (213 miliardi di euro). In confronto la Trump Corp. fattura una minuscola frazione, 655 milioni di dollari l’anno (586 milioni di euro: non tutti i bilanci son disponibili). Di certo, seduti al tavolo dell’amministrazione i due ex businessmen, il peso massimo Tillerson e il peso piuma Trump, dovevano esser coscienti del divario, eppure mai, nei tredici mesi di convivenza, il capo dell’onnipotente Exxon è riuscito ad influenzare il presidente, dimettendosi in disgrazia, dopo averlo definito “moron”, un pirla.

E Steve Bannon? L’astuto stratega dei new media di Breitbart era sicuro di saper imbrigliare Trump, facendone un guerriero contro il “Deep State”, le istituzioni storiche Usa che lo scamiciato attivista combatte. L’ex ufficiale di Marina che ha fatto i soldi nel Gotha del capitalismo, Goldman Sachs, una laurea alla Harvard Business School, voleva giostrare tra il presidente assuefatto ai telegiornali notturni di destra di Fox News e il Governo, teatrino da irretire: è durato meno di sette mesi, dal 20 gennaio al 18 agosto 2017, come un flirt dalla settimana bianca a Ferragosto. Che gente alla Bannon, col seguito di strateghi militari screditati ed economisti pataccari, trovi ancora credito sui media italiani fa quasi tenerezza, come quando dall’America arrivavano certi simpatici cantanti di secondo rango, a girare balere e tv per una sola estate, alla Rocky Roberts 1967 “Stasera mi butto”.

E ogni sera si butta, in una nuova titanica impresa, il genero di Trump, Jared Kushner, che dalle disavventure del padre Charles, condannato a 14 mesi di galera per aver organizzato incontri clandestini tra il cognato e una prostituta a fini di ricatto, ha tratto, alla Freud, un legame profondo con Trump, che lo preferisce ai due, scapestrati, figli maschi, uno dei quali adesso nei guai per aver rilanciato via social contenuti della setta complottista Qanon, certa di combattere l’Anticristo in nome di Trump.

La figlia Ivanka, che con tacchi a spillo e una borsa Max Mara da 1540 dollari non adatta di solito ai moti di piazza, persuade il padre alla sventurata marcia sulla chiesa di St. John, a Washington, per farsi fotografare con la Bibbia in mano, ha ottenuto in cambio dell’impresa i peggiori sondaggi di popolarità di sempre: pare la borsa griffata servisse proprio a trasportare il libro sacro.

Stephen Miller, l’enigmatico consigliere che redasse il piano, contestato, per bloccare l’immigrazione da certi paesi islamici, resta persuaso che sollevare paure sui messicani sia vincente.

Neppure la First Lady Melania, il cui passato misterioso è indagato dalla nuova biografia, “The Art of Her Deal” scritta dalla giornalista premio Pulitzer Mary Jordan, del Washington Post, una donna tanto guardinga da aver rinegoziato con Trump il contratto matrimoniale dopo la vittoria elettorale, gioca nel team. Gli avvocati di Melania, racconta la Jordan, quando il candidato repubblicano era in difficoltà per le battute sessiste, “Le donne? Prendile per la f…” semplicemente alzarono il prezzo del silenzio. Ivanka sfotte la terza moglie di Trump come “Il ritratto”, perché non parla mai, Melania ricambia con “Principessa”, vale a dire figlia viziata. 

E i generali? Se leggete con attenzione le note biografiche di quelli che Trump, ex allievo di un liceo militare dove l’inflessibile padre Fred l’aveva cacciato per punizione, chiamava fiero “My Generals”, restate stupiti e ammirati per il loro coraggio, cultura, dedizione, patriottismo. Il generale a tre stelle H.R. McMaster sbaragliò il 23 febbraio del 1991 i carri armati della divisione scelta Tawakalna, della Guardia Repubblicana di Saddam Hussein alla battaglia di 73 Easting, nel sud dell’Iraq, per liberare il Kuwait: la tattica fu così brillante da esser inclusa nei libri di testo dell’Accademia di West Point e ispirare lo scrittore di thriller Tom Clancy per il saggio “Armored Cav”. Ma il guerriero è solo una parte di McMaster che ha scritto anche un’opera fondamentale, e struggente, “Dereliction of Duty: Johnson, McNamara, the Joint Chiefs of Staff, and the Lies That Led to Vietnam”, analisi di che cosa davvero abbia sconfitto gli americani nel Sud Est asiatico, l’incapacità dei vertici militari di dire la verità ai politici, per malinteso senso del dovere, subalternità, codardia, opportunismo. Per questo il generale-intellettuale accetta l’offerta di Trump, che non deve piacergli troppo, il giovane Donald imboscato al tempo della leva militare per il Vietnam con la diagnosi di un minuscolo sperone osseo al piede, redatta dal medico di famiglia. McMaster vuole vedere la sua tesi realizzata nella storia, dirà la verità al presidente sulla guerra al terrorismo che va male, da Kabul a Baghdad a Damasco e Teheran, e il paese risorgerà. Trump non l’ascolta, la strategia oscilla tra raid sporadici sulla Siria, l’eliminazione del capo Isis al Baghdadi e quella del generale delle milizie iraniane Soleimani, salvo poi smaniare - come rivela l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Bolton - pur di avere un incontro riservato con l’astuto ministro degli Esteri iraniano Zarif.

McMaster dura 14 mesi, dal febbraio ’17 all’aprile ’18, il suo collega generale Mattis, quattro stelle e due soprannomi classici “Caos” e “Cane rabbioso” (non “cane pazzo” come, non saprei perché, ripete la tv italiana) dura due anni, dal gennaio ’17 al gennaio ’19, al Pentagono, Ministero della Difesa, e l’esperienza deve averlo impressionato al punto da rompere il tradizionale riserbo di militari e ministri e criticare l’idea di Trump di usare l’esercito contro le dimostrazioni, in un saggio per la rivista The Atlantic, un mese fa. E veniamo all’ultimo dei generali, John Kelly, il più malinconico e vicino a Trump per le idee anti emigrazione, come dimostra nei sette mesi passati dal gennaio ’17 come capo della Homeland Security, chiamato quindi a fare da capo di gabinetto per metter ordine nel bailamme di una Casa Bianca dove Kushner stila da solo un “piano di pace” in Medio Oriente che nessuno si fila. Considerato “l’adulto nell’asilo infantile”, il generale dei Marine Kelly debutta l’ultimo giorno di luglio del ’17, quando la frenesia di Bannon, Miller e degli altri populisti ha già seminato una giungla di zizzania. Disbosca rivalità, controlla l’agenda del presidente con mano ferrea, impedisce a Jared e Ivanka di prendere appuntamenti nello Studio Ovale senza permesso, prova insomma a riportare ordine. Caccia Bannon, caccia in dieci giorni il bizzarro affarista italo americano Scaramucci (licenziato, a norma di contratto, ancor prima di prendere servizio, raro record), caccia l’invadente consigliera Omarosa Manigault. 

Abboccano tutti, se rileggete Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, come racconta il brillante sito di sondaggi dello studioso di dati Nate Silver FiveThirtyEight, vedrete come i media mainstream abbiano provato a persuadere se stessi, prima che l’opinione pubblica, della “normalizzazione” di Trump. Basta col presidente della “carneficina Usa”, del muro al confine con il Messico, dell’apertura senza preparazione alla Corea nucleare di Kim Jong un, cui Trump cerca disperatamente di regalare una copia del disco “Rocket Man” di Elton John, per scusarsi col dittatore per averlo preso in giro, prima del vertice, come “Uomo Razzetto”. La Storia, esse maiuscola, registrata dalle occhiute note di Bolton, sancisce che il dono non si realizza, le sanzioni contro Pyongyang lo proibiscono, ma il presidente non si rassegna e tempesta diplomatici e ministri.

Il carisma del generale Kelly è consacrato dal destino di suo figlio, Robert Kelly, ufficiale del Corpo dei Marines, come il padre e il fratello John, tenente colonnello: nel 2010 una mina dei talebani lo uccide a Sangin, in Afghanistan. Alla Convenzione Democratica del 2016, Khizr Khan, padre di un caduto di origine musulmana, aveva criticato il presidente in diretta dal podio e il dolore di Kelly schermava le sue critiche. Come il maestro dell’asilo che finisce vittime dei bambini peste di certe vecchie vignette, Kelly resiste dalla fine di luglio ’17 al due di gennaio del ’19, poi anche lui lascia il Grand Hotel Trump, gente che va gente che viene. Rompe il silenzio per schierarsi con Mattis contro Trump.

Ora il presidente è solo. Il suo partito repubblicano non osa contraddirlo, ma mugugna. I guru della campagna elettorale al Senato urlano ai candidati di non farsi fotografare con il cappelluccio da baseball rosso Make American Great Again, “volete perder voti?”. Al comizio di Tulsa, domenica, doveva partecipare secondo la Casa Bianca, un milione di militanti, ne sono arrivati 6200 e non per la bufala della app Tik Tok usata dai ragazzini per bloccare falsi biglietti di ingresso (il software funziona in modo diverso…), ma perché anche i trumpiani di ferro sono stremati, da pandemia, disoccupazione, rivolte.

Tutti coloro che, dal giorno dell’Inaugurazione in avanti, hanno scommesso sul “nuovo” Trump sono stati, come gli ingenui generali, smentiti. In realtà chi conosce la vita del presidente, chi lo ha seguito passo passo a New York quando creò il suo impero, in slalom con la bancarotta, i casino e i concorsi delle Miss, lo show televisivo, i campi da golf, le tre famiglie, le paginate sul New York Times chiedendo la pena di morte per i giovani neri, poi risultati innocenti, per uno stupro a Central Park, i dubbi sul certificato di nascita di Obama che lo squalificherebbe dalla carica di presidente, sanno che Donald John Trump è sempre stato fedele a se stesso. Fare il duro con la grinta a labbra serrate, poi firmare l’accordo sottobanco, preferire l’immagine alla realtà, ridurre la vita, gli affari, la politica a gran teatro, dove il gesto ad effetto prevale su diplomazia, strategia, disciplina militare, fedeltà ai valori.

L’avvocato Gianni Agnelli, presidente della Fiat, mi raccontò una volta del suo maestro di scherma, alla Scuola di Pinerolo, prima di esser trasferito al Reggimento Nizza Cavalleria. All’ultima lezione l’istruttore disse all’allievo celebre: “Le ho insegnato a tirare contro ogni tipo di avversario, tranne uno”. “E quale?” chiese incuriosito Agnelli. “Chi vive nel Caos - rispose il maestro - chi ignora il normale calcolo del dare e l’avere nel rischio, chi per un graffio apre del tutto la guardia, chi non segue le regole razionali di convenienza e azzardo”.

A Trump la strategia del Caos ha aperto una Casa Bianca che tutti ritenevano sbarrata. Non si modererà, non userà TikTok, non lo vedrete in dialogo affabile con la Merkel come Reagan con la Thatcher. Ha già proibito i visti di lavoro internazionali per il 2020, la scusa è il virus, in realtà strizza l’occhio alle base anti emigranti. Sa che il paese è diviso, quando la formula automobilistica delle gare Nascar proibisce la bandiera razzista del Sud sui circuiti, qualcuno appende un cappio da linciaggio nel garage del solo pilota afroamericano, Bubba Wallace. In solidarietà, i piloti dello sport più macho, sudista, legato agli elettori di destra spingono la vettura di Bubba dai box alla linea di partenza. Tra le donne Trump perde contro Biden con uno scarto del 23% nei sondaggi, mentre Hillary Clinton, prima donna candidata, aveva un vantaggio del 14%. Tra le donne bianche senza laurea Trump batte ancora Biden del 14% ma, attenti!, quattro anni fa aveva in quella fascia di elettrici il 25% contro Hillary.

Joe Biden, anziano, pasticcione, mai leader di prima fila, promette pace dopo quattro anni di caos e ritorno a una normale dialettica Repubblicani-Democratici. All’America esausta di questa estate Trump ripropone la Strategia del Caos, scommettendo ancora sull’istinto di rovesciare il tavolo. Accusa Obama di “tradimento”, ma non dice perché. Funzionerà? Quattro mesi son lunghi in politica e ogni mese ha avuto nel 2020 il suo dramma. Per di più, per la prima volta dai tempi di guerra, milioni di elettori voteranno per posta causa virus, allungando oltre la notte del 3 novembre l’attesa dello scrutinio, con Trump che già parla, via twitter, di possibili brogli e lascia temere settimane di stallo, se Biden non vincesse a valanga. E i titoli sui media sono incredibili, il New York Times scrive: “Il soldato Usa Ethan Melzer arrestato per aver complottato con la setta Nazista-Satanica “Ordine dei 9 Angoli” la strage terrroristica del suo reparto. Rischia l’ergastolo”.

40 anni fa il regista Landis immaginò nel suo “The Blues Brothers” la celebre carica di John Belushi contro “I Nazisti dell’Illinois”, sembrava uno scherzo, ora i nazisti Usa esistono davvero, ribaltando il detto di Marx che la storia si ripete, prima come tragedia, poi come farsa: ora la tragedia segue. Difficile dire se il 2021 vedrà Trump a Washington, o nel suo buen retiro di Mar a Lago in Florida, a fronteggiare le infide saghe processuali che lo attenderanno pazienti: siatene certi, sconfitto o vittorioso, il presidente non muterà linea nella sua scherma con la vita, Caos, fino all’ultima stoccata.