Googlare “il dovere della memoria”, in italiano, vi porta a 11.000.000 di voci, biblioteca sterminata che si apre con gli autorevoli appelli del presidente Mattarella e di Papa Francesco. Che ricordare sia importante è certo, eppure anche far pace col passato sembra cruciale: quando lo stesso Mattarella, con il presidente sloveno Borut Pahor, mano nella mano, alla foiba di Basovizza, hanno chiesto riconciliazione tra gli antichi nemici, il messaggio era nitido, dimenticare l’odio per seminare tolleranza. Nel 1984, sui campi insanguinati dalla gioventù della I Guerra mondiale, a Verdun, il presidente francese Mitterrand e il cancelliere tedesco Kohl si strinsero la mano, come Mattarella e Pahor, per dire basta guerra, dopo secoli, tra Parigi e Berlino.

Il passaggio è elementare, ma aspro da compiere, lasciarsi alle spalle il male, filtrandone il bene. Alla fine de “La Tregua”, il suo ricordo del ritorno in patria da Auschwitz, Primo Levi scrive dei giovani sionisti che si organizzano spavaldi sui treni e, alle sue timidezze, ribattono schietti “Hitler è morto”. E il regista Franco Rosi, nel suo film del 1997, tratto da “La Tregua”, benissimo coglie l’incertezza di Levi, affidata al bravo attore John Turturro, la disperazione tra un passato che lo imprigiona e un futuro cui vorrebbe, con gioia, accedere, stress fatale che lo logorerà fino al suicidio, nella casa natale torinese.

Come dunque è giusto vivere? Sapendo chiudere con quel che abbiamo attraversato o rivivendolo ogni giorno, puntuali? Le cronache ci obbligano a questo rituale esame di coscienza, computando per noi il mezzo secolo dalla fondazione delle Brigate Rosse, l’organizzazione terrorista di Renato Curcio, 40 anni dalla strage di Bologna, 30 dalla I guerra del Golfo, eventi da rivedere, discutere, catalogare.

Chi, per mestiere ed età, li ha attraversati come reporter resta sgomento davanti alla deformazione evidente, tra la memoria, corroborata da appunti, interviste, reportage, audio, video, e la vulgata che tracima sul web, pullulante di contraddizioni, errori, furbizie, propaganda, ricatti. Ciascun “evento” viene cristallizzato dai media secondo, appunto, una sua vulgata, e le successive narrazioni non fanno altro che riprodurla, con il risultato grottesco di non darci informazioni, ma cliché. Un giornalista mal ricostruisce in un ritratto un personaggio, internet lo perpetua, tanti altri lo riprendono conformisti. I troppi libri che fanno dei brigatisti dei Robin Hood, magari mal consigliati, ottundono nella memoria di chi è giovane la ferocia ossessiva del gruppo. Abbiamo letto sbobbe orrende sui sogni di brigatisti e brigatiste, come sulla “buona fede” dei killer fascisti Fioravanti e Mambro, il cui unico scopo, interessato, è candeggiare l’orrore e permettere che la vulgata prevalga sulla verità.

Ascoltate una storia di quegli anni, dimenticata. Alla Stazione Centrale di Milano, meraviglioso edificio sventrato ora da tapis roulant petulanti, uscendo sulla sinistra dei binari, in alto, dove gli sguardi dei pochi turisti in mascherina non arrivano, scorgete una piccola lapide di pietra, come le tante che segnano nella capitale lombarda le sofferenze trascorse. Recita laconica:

13 novembre 1981 13 novembre 2011
In memoria di
ELENO ANELLO VISCARDI
(1956-1981)
Agente della Polizia di Stato
Medaglia d’Oro al Valor Civile
Vittima del Terrorismo

Magari l’avete scorta anche voi, nella fretta di un viaggio, cercando invano nella memoria la storia di quel ragazzo. Io stesso, che pure ho composto troppi titoli di quegli anni, ho dovuto lavorare non poco per ricostruire i fatti. Nel grigio novembre 1981 Viscardi ha 25 anni. È nato a Utinga, in Brasile, da famiglia meridionale, come i suoi nomi di battesimo attestano. Ha istruzioni di vigilare sui comportamenti sospetti dei viaggiatori, la stazione è crocevia quotidiano per terroristi e malviventi. Viscardi è colpito dai gesti di una coppia di coetanei e la avvicina. I due sono Giorgio Soldati, che dai terroristi di Prima Linea è transitato in un gruppetto ora dimenticato, allora crudele, i Colp. È armato e con lui c’è un ragazzo che sta reclutando, ancora ignoto alla polizia, non schedato. Scatta una sparatoria repentina, i due uccidono Viscardi e provano a fuggire dalla stazione, ma vengono arrestati da altri poliziotti. In Questura, secondo l’uso del tempo, i terroristi vengono picchiati per avere, a caldo, dati utili alla cattura dei complici. Il ragazzino alle prime armi crolla subito e vuota il sacco, facendo arrestare altri militanti. Il web custodisce il nome del ragazzo, che non faccio, la pronta collaborazione, l’età e la fedina penale fin lì pulita gli han dato una diversa identità e una vita da anima morta, in cui è possibile che pochi dei suoi familiari sappiano ormai dei fatti di Milano.

La storia di Soldati è invece da Dostoevskij e vale la pena di essere ricostruita, almeno in poche righe qui. Anche lui fa i nomi dei compagni, spaventato, e li vede arrestati. Subito, però, si pente della confessione e ritratta. I giudici, Landi e Spataro secondo le cronache dei quotidiani, lo assegnano al carcere speciale di Cuneo, diviso in due clan, tra Brigate Rosse e Prima Linea. Quelli di PL fanno sapere a Soldati, tramite gli avvocati, che i brigatisti adottano una linea dura contro i “traditori”, che loro comprendono invece che si è trattato di una passeggera debolezza e di non farsi assegnare al braccio delle Br, pena la morte. Uno dei magistrati, pare Landi, raccomanda di non mandare il Soldati tra i brigatisti, lui insiste invece, vuol giustificarsi, vuol chiarire, vuol essere assolto dal tribunale terrorista più spietato. Gli articoli e gli atti processuali non chiariscono se si sia trattato di incuria, equivoco o spietata durezza, ma Soldati viene accontentato e assegnato, dissennatamente, alle celle dei brigatisti. Gli uomini di cui Alberto Franceschini, allora detenuto, traccia un ritratto a mezzo secolo dalla fondazione delle Br, da nobili guerrieri travolti dalla storia, erano invece efferati aguzzini. Per dare un esempio contro i pentiti, che stanno pian piano distruggendo le Br, i militanti di Curcio, Moretti e Franceschini “processano” Soldati, che si dichiara colpevole, ammette il tradimento e, pur forte e energico, accetta la pena di morte e si fa strangolare, senza resistere. È passato appena un mese dall’assassinio dell’agente Viscardi.

Finisse qui la storia sarebbe tragica, due morti ragazzi in un paese crudele. Ma non è finita. Perché dopo un delirante volantino di rivendicazione delle Br arriva, cinque anni dopo, il processo per l’assassinio di Soldati e confessano due terroristi, Giorgio Semeria, uno dei capi storici, e Vittorio Alfieri, leader della colonna “Walter Alasia” di Milano. Loro hanno strangolato Soldati con cinque compagni. Al processo assiste il padre di Giorgio, Mario Soldati, accompagnato dallo scrittore Nuto Revelli, suo amico, secondo una cronaca del quotidiano La Repubblica. E quel che dice il padre dell’assassino, giustiziato dai compagni, è davvero orrore degno dei “Demoni” dello scrittore russo. Lo cito dalla cronaca di allora, del reporter Fabrizio Ravelli:

“Mario Soldati, il padre del ragazzo ucciso accusa: Mio figlio non era un delatore. Lo Stato, che gli aveva strappato con mezzi illegali delle rivelazioni, aveva il dovere di tutelare la sua vita. Io vorrei soltanto che le responsabilità venissero accertate. I giudici che ascoltano la sua deposizione non sanno che cosa rispondere e lo trattano anzi un po’ bruscamente. Forse perché si è costituito parte civile contro lo Stato, ma non contro gli assassini del figlio, quelli che definisce spiritati: Come uomo che ha avuto due figli finiti nel terrorismo, posso comprendere quel che succedeva in quegli anni terribili. Ma lo Stato no, non lo giustifico: doveva proteggere mio figlio. Lui che si è messo davanti ai suoi boia con le mani in tasca, che non ha reagito. Perché questa era la sua coerenza. Non fatemi male: lo riconosco in queste parole, lui non sopportava il dolore fisico”.

Soldati dunque non accusa i killer, ma lo Stato, “colpevole” di aver indotto il figlio alla delazione da cui, con giustizia che lui stavolta riconosce legittima, deriva la morte di Giorgio, affermando:

“A mio modesto parere da questo processo sono emerse diverse cose: la più importante per me che ero presente, e per tutta la mia famiglia, è stata la riabilitazione morale della memoria di mio figlio Giorgio, da parte di tutti quelli che hanno parlato, dal PM all’avvocato di Stato, agli avvocati difensori, allo stesso A. che disse che di fronte alla grandezza morale di Giorgio si sentiva piccolo piccolo. Indubbiamente la sopravvivenza dei genitori ai propri figli è la cosa più brutta che possa capitare ma, sono sicuro di interpretare anche il pensiero di mia moglie, preferiamo piangerlo morto ma coerente con i suoi princìpi e la sua moralità, piuttosto che vivo ma traditore e delatore dei suoi compagni, un pentito pagato dallo Stato per tradire i propri compagni con i denari di Giuda”.

La presenza in aula di Nuto Revelli, saggista celebre, combattente della guerra di Russia, partigiano, amico dello scrittore Cesare Pavese e della cultura di sinistra torinese, che dice “Sono qui per Mario. L’ ho conosciuto in Irpinia dopo il terremoto. Era là con 40 ragazzi della Val di Susa, a ricostruire una scuola materna. Erano gente speciale, fuori della norma: entusiasti, seri, concreti, gente con un senso. Gli ho scritto dopo la tragedia, ero rimasto colpito da quest’ uomo”, soffonde in tribunale un’aura storica alla tragedia, che i reportage registrano, legando inevitabilmente nobili tradizioni politiche italiane alla violenza assurda.

In ultimo arrivano le memorie del magistrato Armando Spataro, ormai celebre, rispettato, in pensione, che ricorda Soldati nell’autobiografia “Ne valeva la pena”, presentata con grande solerzia dai giornalisti amici. Provando a fugare le critiche rivolte alla magistratura di aver spedito Soldati al super carcere di Cuneo, in mano ai killer Br, Spadaro annota severo: “Mi chiedo ancora se Soldati fosse ingenuo o fanatico o entrambe le cose” e quando ho avuto modo di leggere questo suo giudizio, davvero avrei voluto inviare all’autorevole ex magistrato una copia dei “Demoni” di Dostoevskij, pagine classiche dove appare chiaro come crudeltà, ingenuità, fanatismo non si escludano mai a vicenda. Ma chi ha più voglia di guardarsi indietro ragazzi? Di ripensare? Ciascuno dei protagonisti ha la sua vulgata, i morti non parlano, come dicono cinici i pirati dell’”Isola del Tesoro”…

Ecco, è sola una storia, ma ciascuna delle mille perdute ha dietro altrettanta, faticosa, verità. Vi pare ancora che la vulgata degli anniversari basti? No. Il filosofo Walter Benjamin, infelice e sfortunato, suicida nel 1940 al confine tra Francia e Spagna, in fuga dai nazisti, ragionò per anni su questo dilemma che oggi ci divide, a partire dal piccolo quadro del pittore Paul Klee, “Angelus Novus”. Benjamin considerava l’opera “L’Angelo della Storia” e ne traeva questa morale: “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta e le ali dispiegate. L’Angelo della Storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal Paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’Angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”.

Il quadro di Klee ha una storia altrettanto fantastica della filosofia che ispira e che ci aiuta nelle difficoltà odierne. Benjamin lo acquistò quando ancora Klee non aveva le stellari quotazioni di oggi, ma al momento di fuggire in Spagna lo affidò al critico e filosofo Georges Bataille che, con altre carte, lo nascose ai tedeschi alla Bibliothèque Nationale di Parigi, da cui, dopo la guerra, venne consegnato allo studioso, Theodor Adorno. Il grande nemico della cultura di massa, che s’era salvato dal nazismo rifugiandosi giusto in California, culla dei mass media, tenne per un po’ in consegna il capolavoro, che fu infine inoltrato al pensatore Gershom Scholem, la cui mistica ebraica e i saggi sulla Kabbalah influenzarono Borges e Eco. Oggi l’Angelo della Storia, dopo aver davvero sorvolato il Novecento, “il secolo delle idee assassine” secondo lo storico Conquest, si riposa al Museo di Israele, dal 1987, dono della vedova di Scholem.

Come lui dovremmo comportarci, con saggia intelligenza e rassegnazione alla nostra parzialità, tra Passato e Futuro, senza ipocrisie. Perché le verità italiane, pur composite, non riescono mai a diventare condivise? La memoria può essere una gabbia, isolarci come cittadini, familiari, persone in un odio che non finisce mai. Oppure può essere un’ala, come nell’Angelo di Klee e Benjamin, e spingerci al futuro. Mattarella e Pahor questo percorso virtuoso indicano, le bugie dei vecchi terroristi e dei loro complici, furbi e gonzi, ci sprofondano nella tenebra opposta. Chi voglia davvero riguardare il passato, deve avere il coraggio morale di rivisitarlo tutto, non solo gli angoli confortevoli della vulgata dei media. Con la fatica di partire da una lapide dimenticata in una stazione frenetica e arrivare al padre che approva lo strangolamento a mani nude del figlio, non tra i feroci cosacchi di Taras Bul’ba, che uccide il figlio Andrea colpevole di essere passato, per amore, tra gli odiati polacchi, ma in Italia, da noi, giusto pochi anni or sono.