L’America è divisa e chiunque abbia diritto da gennaio al titolo di Presidente dopo le elezioni costate 6 miliardi di dollari e seguite in diretta tv e web nel mondo non saprà unirla. La divisione tra il presidente uscente Barack Obama, democratico, e l’ex governatore del Massachusetts e uomo d’affari repubblicano Mitt Romney, è presentata spesso come una novità, seguita alla «guerra culturale» tra conservatori a progressisti. Il paese è «polarizzato», si dice, da radio talk show revanscisti alla Rush Limbaugh, reti di destra alla Fox News e di sinistra alla Msnbc, blog vicini ai movimenti anticapitalistici Occupy Wall Street e cortei pro business Tea Party, perfino il liberal New York Times si radicalizza come il liberista Wall Street Journal. La tensione è tanta che migliaia di avvocati, convocati da repubblicani e democratici, hanno fatto la notte in bianco in cerca di eventuali brogli e per presentare subito ricorsi.

Alla fine della campagna tante le voci di rimpianto per un Paese unito, con interessi nazionali condivisi, culture diffuse, senza la frattura che il nuovo Presidente dovrà affrontare. Ma è così? Davvero nel passato gli Stati Uniti d’America erano meno polarizzati? No. Nel XIX secolo gli Usa non apparivano certo Paese unito, sanguinosa Guerra Civile tra Nord e Sud a parte. Jules Verne, autore del popolare romanzo «Il giro del mondo in 80 giorni», quando fa finalmente approdare in America l’eccentrico gentleman inglese Phileas Fogg, lo lancia subito in una terribile rissa elettorale tra i militanti di due candidati, Kamerfield e Mandyboy, così scatenata che il protagonista viene aggredito e chiede perplesso a che carica i due concorrano: «Giudice di pace!» si sente ribattere.

L’America divisa del dopo voto vagheggia la sua immaginaria, e inesistente, unità, ma già per i nostri antenati era nazione pronta a fare a cazzotti per eleggere un giudice di pace, figuratevi un Presidente. Lo Stato dell’Ohio, che dal 1960 vota come l’America, è celebre per detenere le chiavi della Casa Bianca, 11.536.504 abitanti, poco meno di sei milioni di elettori, una contea, Hamilton County nel primo Distretto, che premia G. W. Bush con appena il 51%, poi Obama col 55%, fulcro della leva politica. Ma se riguardate la storia antica dell’Ohio trovate una sorpresa dietro la tradizione operaia, la terza manifattura d’America erede di Standard Oil dei Rockefeller, dei fratelli Wright pionieri dell’aviazione, della Procter&Gamble. La sorpresa è la divisione ancestrale dell’Ohio, raccontata da Michael Barone nel suo formidabile classico «The Almanac of American Politics». In origine lo Stato, disegnato a tavolino dopo la Rivoluzione, venne colonizzato a Nord da fieri yankee venuti dal Nord Est, soprattutto dal Connecticut, e a Sud da eredi delle famiglie della Virginia. Yankee col pallino dell’industria contro «Butternut», sudisti legati ai campi, mai andati d’accordo, divisi anche durante la Guerra Civile.

La «guerra culturale» delle due Americhe non è dunque fenomeno dei talk show in tv o dei blog arrabbiati sul web. Populismo, paranoia, tolleranza, riforme, avventura, individualismo e comunità si sono sempre affrontati con foga. Il New Deal del presidente Roosevelt fu contrastato passo passo dalla Corte Suprema conservatrice, gli intellettuali cari al democratico Stevenson detestavano Eisenhower, l’ultima visita di Kennedy a Dallas fu preceduta da minacce di morte dei razzisti, nel 1968 e 1972 le Convenzioni furono bolge politiche, Nixon odiava ed era odiato dai suoi avversari, Reagan - che pure come Clinton sapeva unire - era irriso nei campus nobili delle università Ivy League, contro Clinton i repubblicani lanciarono una violenta campagna culminata nelle richieste di impeachment. La mezza America che ha amato George W. Bush ha odiato Obama, e viceversa.

Barack Hussein Obama ha dichiarato di volere riunire il Paese nei suoi bei libri, ma alla fine la politica ha prevalso e ha dovuto mobilitare solo la base, sperando nei 270 voti elettorali del Collegio che assegna, arcaico, la vittoria al Presidente americano. Romney ha scommesso sulla destra per ottenere la nomination in primavera, poi pian piano ha recuperato l’aplomb centrista, sperando nel paradosso di unire estremisti e moderati, tradizionale coalizione repubblicana cara a Bush padre e così fuori moda oggi.

La divisione profonda che il nuovo Presidente dovrà affrontare non è colpa dei media, vecchi o nuovi che siano. Scaturisce da interessi diversi, culture opposte, desideri inconciliabili. I repubblicani che mandano i figli a scuola privata, si curano con assicurazioni sanitarie private, vivono in «gated community» dove si entra solo mostrando i documenti e pagano la propria pensione autonoma, trovano ingiusto pagare le tasse, perché non hanno più dallo Stato servizi sociali comuni. I democratici che vivono di questi servizi, dalla scuola alla sanità alla pensione, temono ogni taglio alla spesa. L’esercito professionale è raro ponte tra le due comunità, i repubblicani presenti con le famiglie tradizionali del Sud, i democratici con i figli delle minoranze povere e urbane.

Le due coalizioni che si sono scontrate ieri non potrebbero essere più diverse, con Romney maschi bianchi sia ricchi che lavoratori, il ceto medio, Wall Street, l’America rurale, le piccole e medie imprese; con Obama le metropoli delle due coste, i tecnocrati del digitale, le minoranze dagli afroamericani agli ispanici, gli intellettuali e Hollywood, gli operai salvati dal piano auto, i sindacati di scuola e fabbrica. In mezzo le comunità incerte, cattolici, asiatici, anziani e pensionati, professionisti.

Se i dati dell’ultima ora si confermano, i democratici dovrebbero tenere il Senato e i repubblicani la Camera: ma, ammonisce la Banca Centrale, davanti all’emergenza lavoro, al dilemma di deficit e debito pubblico e al «fiscal cliff», i tagli automatici alla spesa per 600 miliardi di dollari che scatteranno a Capodanno 2013, la fragile ripresa economica potrebbe essere a rischio. Chiunque sieda a gennaio alla Casa Bianca dovrà allora riaprire il Rapporto sulla politica fiscale redatto dalla Commissione indipendente Simpson-Bowles che Obama ha elogiato e poi, sbagliando, dimenticato sul tavolo. Ancora oggi la capacità di innovazione tecnologica e sociale d’America non ha pari nel mondo ma un equilibrio fiscale, sociale, di comunità resta indispensabile: vedi le emergenze clima da Katrina a Sandy. Anche oggi le Americhe restano due, ciascuna con i suoi torti e ragioni, ma il Presidente deve essere interprete tra clan, non limitarsi a guardare la scazzottata tra i militanti di Kamerfield e Mandyboy, come lo scettico Fogg nel Giro del Mondo.