Conteranno di più le Soccer Moms o i Nascar Dads? Sarà l’ultima carica dei Baby Boomers o la Casa Bianca andrà agli Angry White Men? Il blocco elettorale più solido saranno i Redneck, i Bubbas, i Nerd? Ad ogni elezione americana gli spin doctors, i manager delle campagne, cercano il gruppo sociale che, per magia, dia la vittoria al loro candidato. E lo coccolano, lo stimolano nei sondaggi, provano a mobilitarlo non solo con gli spot tv, anche con i «megadata», intercettando la conversazione sociale dei new media.

La corsa Usa 2012 costerà un miliardo di dollari (770 milioni di euro), il presidente Obama ha allestito a Chicago un quartier generale informatico che analizza l’umore Usa via Facebook, Twitter, Google, i blog. Quando il vicepresidente Joe Biden, cattolico, s’è detto a favore delle unioni gay, il presidente ha taciuto per qualche giorno, per poi dirsi a sua volta d’accordo, perché nel frattempo il gruppo di Chicago ha analizzato le reazioni elettorali all’uscita di Biden, le ha tabulate positive e quindi esposto la Casa Bianca.

Ma già prima del digitale si cercava la Maschera Perfetta nella Commedia dell’Arte Presidenziale. Nel 1996 il democratico Bill Clinton e il suo sfidante repubblicano Bob Dole si contesero le «soccer moms», soprannome delle mamme del ceto medio che, nei sobborghi residenziali, portano i figli da un campo di calcio - detto «soccer» - all’altro. In anni di boom economico, con l’America che estraeva le carte di credito più velocemente delle colt nel West, le «mamme del calcio» condizionavano consumi e orientamento politico in famiglia. In maggioranza scelsero il suadente Clinton sul corrucciato Dole e Hollywood dedicò perfino un film alla «soccer mom». La Sarah Palin vicepresidente candidata 2008 virò il gruppo a destra in chiave Alaska. «Siamo mamme hockey», disse: non funzionò.

I repubblicani nel 2000 e nel 2004 opposero alle «soccer moms» i «Nascar dads». Se la politica di welfare, aiuti alla scuola e politica estera pacifica da Nazioni Unite di Clinton era diretta alle donne, George W. Bush puntò sui «papà Nascar», bianchi lavoratori appassionati delle corse automobilistiche stile Indianapolis. Spesso con un background militare, a scuola più diploma di high school, liceo, che laurea al college, l’università, i «Nascar dads» detestano i controlli sulle armi personali, le tasse, la mutua sanitaria imposta poi da Obama. Malgrado il candidato democratico 2004 Kerry avesse un passato da eroe in Vietnam, lo irrisero come un inutile marmittone su Internet e ridiedero la Casa Bianca a Bush figlio. In versione dura, contro le minoranze, diventano «rednecks», come i contadini del Sud col collo arrossato dal sole. In versione soft sono «Bubba», come l’amico di Forrest Gump nel film, e possono anche votare Clinton.

Clinton 1992 vinse su Bush padre anche perché unisce bubbas e baby boomers, nati tra il 1946 e il 1964, figli del dopoguerra. Fino ad allora la Casa Bianca aveva ospitato protagonisti della Seconda guerra mondiale, Roosevelt, Truman, Eisenhower, Kennedy, o leader formati in quel clima, Johnson, Nixon, Carter, Reagan, Bush padre. Clinton e Bush figlio portano i «boomers», Beatles, 1968, benessere, al potere. Poco importa che, a Oxford, Clinton fosse amico dei contestatori e a Yale invece G. W. Bush fosse stato rimproverato perché «figlio di un politico di destra» dal celebre cappellano progressista Coffin: il ’68 segna entrambi.

È Howard Dean, sfortunato candidato democratico nel 2004, il primo a intercettare i nerds, la generazione high tech che piangerà alla morte di Steve Jobs e non si farà mai cogliere senza iPhone in tasca. A loro chiede soldi per la campagna, dollaro su dollaro via mail, e prova a rappresentarne gli interessi postindustriali. Obama li raccoglierà nel 2008, più maturi, unendoli agli studenti del college e a quelli che il campione del golf Tiger Woods chiamava «cabasian», da figli di caraibici e asiatici, ragazzi il cui passato etnico non è più in bianco e nero, ma senza imbarazzo assorbe culture, tradizioni, razze.

Se i toni della campagna repubblicana a volte vi suonano stridenti, non pensate a un errore nella sceneggiatura: come Bush padre sconfitto nel 1992 e Bush figlio vittorioso nel 2000 e 2004, si appellano agli «angry white men», versione dura dei Nascar dads e dei Bubbas, bianchi maschi arrabbiati. Gli «angry white men» guadagnavano 27 dollari l’ora alle linee di montaggio quando Detroit dominava il mondo: oggi sono disoccupati, pensionati, confusi nella «rust belt», la cintura della ruggine. Il computer non sanno usarlo, il salario è andato in Cina, i bulloni li avvita un robot. Perfino la lingua, slang di battute, è perduta, la sessualità machista irrisa negli show tv e insidiata da donne libere e metrosexual a proprio agio tra i gay e no.

Campione dell’«angry white man» è il Clint Eastwood del film capolavoro Gran Torino e Mitt Romney, invitandolo al monologo della Convenzione repubblicana, ha provato ad usarne il fascino. Molti lo hanno criticato, ma la forza di Eastwood e degli «angry white men» è confermata dal silenzio di Obama e Clinton alla Convenzione democratica: su Clint non una parola. E nel 2012 chi deciderà la vittoria? Segnatevi questo indirizzo, Palm Spring, Florida: è la stagione delle contee di elettori indipendenti, saranno loro decisivi.