I l libro più letto a Washington per decifrare la presidenza di Donald Trump è stato scritto 20 anni fa, si intitola «Dereliction of Duty», abbandono del proprio dovere, e lo ha compilato come tesi di laurea il generale H. R. McMaster, oggi Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Schizzato in testa alle classifiche su Amazon per l’editore HarperCollins, il manuale di teoria militare capovolge la tradizionale critica storica alla guerra in Vietnam. D a sempre si accusavano i civili, Kennedy, Johnson, McNamara, Kissinger, di aver ficcato il paese in una tragedia, mentre i militari si sacrificavano invano nelle risaie. McMaster mette invece sul banco degli imputati, con durezza, proprio i generali. Toccava a loro, argomenta, spiegare ai Presidenti che la strategia era sbagliata, obbedirono in silenzio per conformismo e carrierismo, tradendo così il proprio dovere.  

 Tra duri e moderati  

La tesi di McMaster è compulsata con l’occhio non alla Washington di mezzo secolo fa, ma a quella del 2017. Il duro McMaster saprebbe dire di no, se servisse, a Trump, come i suoi colleghi non seppero fare? Nei corridoi del potere, dai think tank Brookings e Carnegie, all’Università di Georgetown, tra i reporter ribelli di Breitbart alla loro nemesi del «New York Times», tra gli scranni del Congresso, McMaster appare come l’uomo che, per ruolo e carattere, potrebbe invitare il Presidente a non eccedere in foga irruenta. Dietro di lui potrebbero muoversi il segretario di Stato Rex Tillerson, il ministro del Tesoro Steven Mnuchin, il ministro della Difesa James Mattis detto «cane rabbioso», con i due Stephen, i militanti consiglieri populisti Bannon e Miller, a caricare invece Trump da leader di un’agenda protezionista in casa e oltranzista nel mondo. Il capo di gabinetto Reince Priebus e il vicepresidente Mike Pence sarebbero i mediatori tra le fazioni, con Priebus più vicino ai falchi e Pence ai moderati.

Che per vaticinare la strategia di Trump ci si affidi a un arcano testo accademico, prova quanto il neo presidente abbia sconvolto le analisi classiche della politica Usa, con alleati di partito e nemici giurati dell’opposizione che stentano, allo stesso modo, a decifrarne la rotta. Il Presidente aveva in programma di parlare ieri sera al Congresso, difendendo la scelta di puntare su un bilancio della Difesa che aumenta la spesa militare di 54 miliardi di dollari (cambio euro dollaro 1,06), tagliando altri capitoli di spesa, dagli aiuti ai Paesi terzi al bilancio del ministero degli Esteri, stralciato del 30%. 

 No a visioni apocalittiche  

Trump è stato pressato dai moderati per presentare un quadro meno apocalittico dell’economia, anche perché le Borse vanno bene, scommettendo sulla spesa per il Pentagono e le infrastrutture pubbliche, oltre ai tagli fiscali, per cittadini e aziende, annunciati in campagna elettorale ma non ancora definiti. Colpite solo le compagnie come Walmart, la catena di supermercati, che puntando sulle importazioni temono di dovere alzare i prezzi di prodotti popolari che i consumatori pagheranno più cari. Il Presidente lascerà sulle spalle di Obama il peso «del caos che ho ereditato», ma senza adottare i toni lacrime e sangue del discorso dell’inaugurazione, quando Bannon dettò il titolo «carneficina americana».

Le poche settimane di governo hanno dimostrato al focoso Donald Trump quanto aspro sia il mestiere del Presidente. Il decreto contro l’emigrazione da sette Paesi a rischio terrorismo langue in tribunale, le svolte su Cina e Medio Oriente sono rientrate dopo nette reazioni diplomatiche, la tattica protezionista ha bocciato il patto asiatico di commercio Tpp che esisteva però solo sulla carta ma non avanza contro il Messico, le riforme fiscali e gli investimenti sulle opere pubbliche sono ostaggio dei repubblicani conservatori che detestano allargare il debito pubblico. Trump aveva prima giustificato le spese con tagli paralleli, poi ha parlato di coprirli con «la ripresa economica». 

Il carattere del Presidente, con i tweet dell’alba irati, lo porta a fiancheggiare i militanti Bannon e Miller, ma la smania di vincere lo rende cauto e, come tante volte da costruttore a New York, farà marcia indietro se necessario. Nei Big Data e sondaggi di popolarità Trump resta amatissimo dalla base repubblicana, ma non guadagna consenso tra indipendenti, centristi, democratici. Le due ali trovano quindi forza ai propri opposti argomenti, Bannon sostiene che unire gli elettori è la sola strada in una America spaccata, i rivali sostengono che non si può governare in un clima di campagna elettorale perenne. 

Dai toni di Trump della notte appena trascorsa capiremo meglio chi ha il vantaggio tattico alla Casa Bianca. Silicon Valley attende i fondi della spesa militare, le aziende tecnologiche tagli fiscali per riportare capitali in patria e i governi stranieri, alleati o nemici, l’ultima manovra diplomatica. Solo da qui al G7 estivo sarà pero chiaro chi avrà saputo dire di no al Presidente, e a chi il presidente Trump avrà invece voluto dire di sì.