Scherzando con i miei studenti, a Princeton University o al Datalab Luiss, racconto che la prima campagna elettorale americana che ho coperto da cronista, fu quella che vide opporsi il repubblicano Abraham Lincoln e il democratico, ex generale, George McClellan, 1864. Elezione storica, i democratici volevano chiudere la guerra con il Sud sullo schiavismo, subito per l’ala radicale dei Copperheads, dopo un negoziato per i moderati, ma l’idea di distruggere il Mezzogiorno Confederato, come Lincoln pianificava con i suoi generali Grant e Sherman, era contestata. Lincoln vinse per 2.218.388 voti contro 1.812.807 del borioso McClellan, il paese era ancora piccolo e aveva diritto al voto solo una sparuta minoranza, perché votassero anche gli afroamericani si attese il XIV emendamento alla Costituzione, nel 1868, alle donne toccò più tardi, con il XIX emendamento, nel 1919. E, dicono gli storici, ad assegnare la vittoria a Lincoln fu forse giusto la conquista della città sudista di Atlanta, che ridiede entusiasmo ai repubblicani, in caso contrario forse il partito anti emancipazione degli schiavi avrebbe prevalso.

È uno scherzo, più modestamente la mia prima elezione in diretta fu da studente al Master di Giornalismo della Columbia University, 1984, il presidente repubblicano Ronald Reagan, come quest’anno, in lizza contro un ex vicepresidente, il democratico Walter “Fritz” Mondale. Il leggendario professor Donald Shanor portava i ragazzi del suo seminario in New Hampshire, dove cominciavano le primarie dopo i caucus dell’Iowa. Divideva con il lapis le zone intorno alla città di Manchester su una mappa, e ciascuno di noi, isolato per isolato, doveva bussare alla porta delle case rurali e chiedere “Scusi Mister, lei per chi vota?”. Una grande lezione di politica americana che nella vita mi è stata più utile di tanti seminari accademici e articolesse dei soloni da think tank. Con ai piedi i fidi stivali di gomma da cacciatore di anatre, L.L. Beans, sguazzando nel nevischio e nel fango, ci vedevamo sbattere la porta in faccia, minacciare con una doppietta, spiegare che i “Mister” votavano cosi o colì non per le sofisticate strategie della Guerra Fredda da rivista di geopolitica patinata, ma perché le tasse salivano sul raccolto, il governatore non li ascoltava su una certa diga da riparare, la nafta per i trattori costava troppo. Da allora ne ho viste tante, e una volta forse varrà la pena di raccontarle, Gary Hart che vince a sorpresa nel New Hampshire “Confidence, confidence and then victory!”, Reagan che invita i repubblicani a puntare sui valori non la paura nel 1992, il giovane Bush consigliere fidato del padre che, solo qualche anni prima, ubriaco, voleva invece prendere a cazzotti, l’aereo di Clinton, una sorta di festa mobile in aria, la passione e la cortesia di John McCain, la malattia della Hillary Clinton, il caos vittorioso di Trump.

Le domande erano tante, “Perché gli americani non votano?” si chiedeva la studiosa Frances Fox Piven“Perché non c’è in America un partito socialista?” incalzava lo storico Martin Lipset . “Perché due contee della California, Orange e Marin, identiche per ceto, etnia, società sono una conservatrice e l’altra progressista?” si interrogava il politologo Bill Schneider. E a ciascuna domanda cercavamo risposta, con fatica da cronista, spesso meravigliandoci davanti alla beata indifferenza di tanti americani che, mentre noi stranieri ci incantavamo davanti al duello tv Reagan-Mondale, con la storica battuta di Reagan, accusato di essere anziano a ribattere ridendo “non solleverò il tema della gioventù e inesperienza del mio rivale…”, divertendo lo stesso Mondale, gli americani si addormentavano ignari.

Quel sonno era, in realtà, non un senso di sfiducia o alienazione, ma un senso di profonda fiducia nel sistema. Si cominciava a votare tardi, dopo i 35 anni, da ragazzi si pensava allo studio, al lavoro: ancora nel 2016, nella mia classe a Princeton, chiedendo quanti avessero votato al mattino ho visto alzarsi solo un paio di mani. Contava per molti l’economia più della politica, per emanciparsi, come singolo e come comunità. Non che non ci fossero militanza e impegno, quando mi toccava leggere, a firma degli eterni tromboni oleografici, che le Convenzioni erano “Americanate”, diventavo matto, erano laboratorio di piattaforme, nuovi leader, ideali, interessi, ogni capannello zeppo di fermento, idee, accordi, sia pure nel frastuono delle bande e nell’afrore di hot dog e birraccia scadente (che nostalgia, quest’anno tutto online, frigido, neppure un panino con salsiccia e peperoni, ragionando di clima, Corea, Nato). Ma, certo, una gran parte della popolazione non si curava neppure di registrarsi alle urne, Democratico, Repubblicano, Indipendente per votare.

Domenica notte, così la mia fida radio di notizie 1010 Wins, quella dei tassisti, mi ha informato, una carovana di militanti trumpiani ha bloccato l’autostrada Garden State Parkway, verso il ponte dedicato all’ex governatore di New York Mario Cuomo e nessuno sapeva bene perché, protesta, manifestazione, raduno ? Qualche giorno fa, intorno al Central Park a Manhattan, un gruppo di “Ebrei per Trump” ha sfilato con bandiere e megafoni, da anni non ne vedevo uno, contro il lockdown da Covid 19, sollevando insulti e reazioni da parte di militanti di sinistra, con l’ex sindaco Giuliani, avvocato del presidente, a soffiare sul fuoco. Un autobus con a bordo i dirigenti della campagna elettorale di Joe Biden è stato intercettato in Texas, da San Antonio a Austin, da un convoglio di trumpiani, che -secondo alcune versioni- ha provato a fermare, forse addirittura buttare fuori strada, il convoglio dell’opposizione, fino all’intervento della polizia: l’Fbi ha aperto un’inchiestama il presidente twitta “Questi patrioti non han fatto nulla di male, l’Fbi indaghi sugli anarchici” e all’ultimo comizio sfotte “Li scortavano, li proteggevano, noi siam gente perbene…” .

Oggi si vota in America e la passione, stavolta, avrebbe scosso perfino il raziocinante professor Shanor: a Manhattan, come in tante città, le vetrine dei negozi, dalle boutique del lusso di Madison Avenue alle bodegas familiari del Bronx, vengono sbarrate da assi di legno, si temono disordini, violenze, dopo quelli dei mesi passati. Miliziani di destra in armi sarebbero pronti a scendere in piazza, a sinistra sulle chat si evocano opposti servizi d’ordine, la paciosa vigilia di un tempo, quando milioni di americani andavano a dormire, chiedendo assonnati al mattino alla moglie o al marito, “Chi ha vinto poi la Casa Bianca?” è lontano ricordo.

Eppure, nell’Ottocento, gli europei così vedevano la politica USA, cazzotti, risse, gruppi di facinorosi urlanti, se Jules Verne, per rallentare a San Francisco il suo intrepido gentleman britannico Phileas Fogg, eroe de “Il giro del mondo in 80 giorni”, crea lo scontro di piazza tra i deputati Mandiboy e Kamerfield. “Grida echeggiavano da ogni dove. Urrà per Kamerfield! Urrà per Mandiboy! “Suppongo che si tratti di una competizione, di un “meeting” come lo chiamano qui, per l’elezione di qualche alto funzionario militare o civile, o addirittura di un membro del Congresso, a giudicare dall’animazione che si vede”…Là intornol’agitazione raggiungeva il parossismo. Tutte le mani erano in aria; talune rigidamente chiuse a pugno si alzavano e si abbassavano con rapidità e con frequenza, mentre intorno scoppiavano grida, e il numero dei cappelli neri a cilindro diminuiva a vista d’occhio… due nobili campioni l’uno di fronte all’altro, l’onorevole Kamerfield e l’onorevole Mandiboy. Gli «urrà» conditi di improperi raddoppiarono. L’asta delle bandiere si trasformò in arma offensiva. Non più mani: pugni dappertutto. Dall’alto delle carrozze e degli “omnibus” bloccati era uno scambio di insulti e un lancio di corpi contundenti: stivali e scarpe descrivevano in aria traiettorie molto tese. Anche qualche colpo di revolver si frammischiò all’urlio assordante che pareva la voce del mare in tempesta”. 

La fantasia di Verne, l’America elettorale come Far West, è tornata attuale. Il sito Axios teme che Trump non attenda lo spoglio di tutte le schede elettorali inviate per posta, per esempio nel cruciale stato della Pennsylvania, ma si autoproclami vincitore martedì note, a scrutinio aperto, innescando una grave crisi istituzionale. La campagna repubblicana nega lo scoop di Axios e assicura che Trump rispetterà le norme, ma con i giudici ad avere assegnato a vari stati diverse deadline, scadenze, per ultimare gli spogli, dubbi, incertezze, caos sono possibili, a meno di una valanga di voti a favore di uno dei due contendenti che pochi sondaggi, fin qui,lasciano prevedere. Il presidente minaccia di sguinzagliare una torma di avvocati, sperando in caso di sconfitta nel ricorso alla Corte Suprema, dove ha una comoda maggioranza di 6 giudici su 9 e annuncia di non concedere la classica pacifica transizione tra partiti “Hanno forse dato a me una transizione pacifica? -arringa la sua folla di fedelissimi- No. Obama e Biden hanno spiato sulla mia campagna, perché dovrei lasciarli io in pace?”. La Casa Bianca ha nominato un rispettato professionista, Chris Liddell, per guidare la transizione che, per tradizione, assicura il passaggio di poteri senza attrito. Liddell ha già coperto il ruolo nel 2012, rappresentando il senatore repubblicano Mitt Romney, sconfitto da Obama, ma il cauto, mormone, Romney non è Trump. Un democratico coinvolto nel processo di “transition” spiega ad Huffington Post “Trump ha già minacciato di licenziare il dottor Tony Fauci, direttore dell’Istituto Malattie Infettive che lo contraddice sul Covid 19, e potrebbe cacciare i ministri che non lo hanno assecondato fino in fondo, perfino quello della Difesa. Abbiamo arruolato una legione di legali per contrastare le manovre repubblicane. Dopo le urne i tribunali”.

Due Americhe irriducibili si affrontano oggi e gli sconfitti rimugineranno a lungo di brogli, camarille, complotti. I sondaggi li conoscete, Biden ha 88% di chances di vincere, Trump una dozzina, strada stretta ma praticabile. Oppure i sondaggi, per la seconda volta in quattro anni, potrebbero di nuovo essere sbagliati, prova che il termometro si è rotto e ci sono umori sanguigni, passioni alla Kamerfield e Mandiboy, che la classe dirigente, i media, gli esperti non riescono più a rilevare. 

Se rieletto, il presidente Trump si sentirà legittimato ad andare avanti nella strada dura e sprezzante della sua campagna elettorale, ancor più populista e nazionalista. Biden, se vincente, proverà a fare qualche passo unitario, ma non gli sarà facile, davanti al muro contro muro repubblicano a e alla sua stessa ala radicale democratica.

Guardo i blocchi stradali nel pacioso New Jersey, le cui targhe azzurro cielo, il sabato notte, vengono irrise dai bulli di Manhattan come provinciali, “Go back to Joirsy” nella dura parlata di Downtown, guardo le vetrine sbarrate della un tempo luccicante Manhattan, leggo dei grandi magazzini Walmart che ritirano armi e munizioni dagli scaffali, una vecchia amica, figlia di un diplomatico, lamenta “Mio marito ha comprato una pistola, per la prima volta”, mi chiedo, come a Roma 1978, se scriverò stanotte di politica o di sparatorie in piazza, percepisco che gli europei, italiani in testa, non hanno a fondo colto, per cinismo, provincialismo o cinismo provinciale, la tragedia americana 2020 e non oso spegnere 1010 Wins neppure stanotte, neppure dopo l’ultimo scrutinio, illudendomi di coglierne le notizie Breaking News, perfino in sonno.

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