Quando leggerete questo articolo mancheranno otte giorni al voto negli Stati Uniti fra il presidente repubblicano Donald Trump e il suo sfidante, l’ex vicepresidente democratico, Joe Biden. Ormai sapete tutto di entrambi, il passato di Trump da imprenditore edile a Manhattan, le tre mogli, le accuse di esser troppo amico di Putin, il passato da senatore e vice di Obama di Biden, la moglie morta in un incidente stradale con la figlioletta, le accuse al figlio Hunter di esser troppo amico degli oligarchi ucraini.

Avete letto gli articoli che vi spiegano, tra le righe, che i sondaggi hanno torto, come nel 2016, e vincerà dunque Trump, e gli altri che vi hanno, con altrettanta certezza, chiarito che il vantaggio di Biden è doppio di quello della Hillary Clinton quattro anni or sono e che dunque vincerà lui. Avete sentito a iosa che conta il Collegio elettorale non il voto nazionale, i 538 punti in palio in 50 Stati e Washington DC, maggioranza a 270, i guru vi hanno chiarito che la violenza nella manifestazioni per i diritti civili riporta al clima Legge&Ordine del 1968 con Richard Nixon, che i presidenti vengono di solito rieletti e che l’ultimo a non essere rieletto è stato il democratico Jimmy Carter, sconfitto dal grande Ronald Reagan nel 1980 (e stavolta i guru ci si sono messi in due per cannare alla grande, perché l’ultimo presidente a non essere rieletto è stato il repubblicano Bush padre, sconfitto da Bill Clinton nel 1992, capita ai migliori guru di non avere la più vaga idea di quel che dicano…).

Bene: le avete sentite ormai tutte e l’unica cosa che vi interessa da qui al 3 novembre, mentre cercate di sfangare la vita tra le ordinanze un tanto al chilo del premier Conte, il lavoro in remoto, la paura per i vostri cari, la preoccupazione per l’economia, è: chi vince in America, ditecelo e andiamo a cena prima delle 18. Questo articolo proverà dunque, non sapendo chi vince perché l’autore non è guru, e neppure - ahimè - paraguru, a spiegarvi a che punto siamo nella corsa verso la Casa Bianca, che Americhe si stanno affrontando e con che chance di vittoria.

Prima di tutto però, cominciamo ad affrontare una delle affermazioni ricorrenti nel dibattito di questi ultimi giorni elettorali: Ah Ah, parlate parlate, ma i sondaggi nel 2016 non ci hanno preso, erano sbagliati, Trump ha vinto, il popolo ha umiliato gli esperti (è importante che l’affermazione sia preceduta dall’esclamazione irridente Ah Ah, se no non funziona, né nei talk show, né al baretto della piazzetta d’angolo).

È davvero così? I sondaggi “hanno sbagliato” nel 2016 e non dobbiamo dunque fidarcene oggi, preferendo calcolare con il fiuto dei guru, gaffes di Biden e faux pas, passi falsi, di Trump? Vediamo. A due giorni dal voto del 2016, secondo una ricostruzione del pollster del sito Five Thirty Eight Dhrumil Mehta, corroborata da ricerche svolte dal Datalab Luiss e da G. Elliott Morris, capo del Data Journalism al settimanale The Economist, un sondaggio Marist assegnava alla candidata democratica, l’ex segretario di Stato e First Lady Hillary Clinton, un vantaggio del 2% nel voto. E i sondaggisti di Marist possono essere fieri, perché, infatti, con 65.853.514 milioni di voti, pari al 48,2%, contro 62.984.828 milioni di voti, il 46,1%, la Clinton vinse il voto popolare per 2,1%, come previsto.

Naturalmente però, in Gran Bretagna con il seggio unico in cui il parlamentare vincitore prende tutto, in Francia con il doppio turno e in Italia con le leggi elettorali che riusciamo a concuocere di anno in anno, sempre più mefitiche, i sondaggi devono essere poi pantografati sul sistema vigente e negli Usa il voto assoluto della Clinton, previsto con precisione da parecchi istituti, andava riprodotto negli stati e nel Collegio elettorale nazionale.

Qui le cose si complicano, insiste Mehta, soprannominato “Dottor Sondaggio”, e malgrado parecchi sondaggi fossero troppo ottimistici per la Clinton la media delle rilevazioni, cioè il confronto medio tra tutti i sondaggi, guidava a un preciso +2% per i democratici e, infatti, la media dei sondaggi è andata molto vicina alla verità del voto nel 2000, Bush-Gore, 2004, Bush-Kerry, 2008, Obama-McCain, 2012, Obama-Romney. Passando agli Stati, il margine di errore cresce, spesso dal 3% nazionale al 5%, le rilevazioni son più confuse, non tutti i campioni tarati ad hoc. Risultato, un errore medio superiore al margine previsto, 5,4 che ha confuso i dati. Ragione dell’errore? Gli indecisi erano in realtà decisi a votare per Trump ma anche a non dirlo agli intervistatori e, seconda ragione, i campioni erano tarati accuratamente per età, etnia, sesso, ceto, regione ma non per livello di educazione e lo scarto reale delle elezioni 2016 è stato proprio la differenza tra elettori maschi bianchi con diploma di scuola superiore e elettori con laurea. Degli 8.188.027 cittadini che nel 2012 han votato per Barack Obama e, quattro anni dopo, hanno scelto Trump, Diavolo e Acquasanta o Acquasanta e Diavolo secondo il guru di riferimento, la gran parte erano maschi bianchi non laureati, che i campioni non avevano “pesato” a sufficienza.

Non si tratta di un errore nuovo, le società cambiano, la tecnologia pure e tra sondaggi e opinioni la rincorsa è perenne, con ritardi periodici.

Dopo le elezioni vinte nel 1948, il presidente democratico Harry Truman si fece riprendere in una storica foto, sventolando sorridente la prima edizione del quotidiano Chicago Tribune con il titolo a tutta pagina “Dewey defeats Truman”, Dewey batte Truman, malgrado il candidato repubblicano Dewey fosse stato battuto. E per tutto il martedì di voto del 2004 gli exit polls diedero vincente il senatore democratico Kerry contro il presidente repubblicano Bush, inducendo il Manifesto allo stesso errore del Chicago Tribune con il sommarione “Good Morning America” e la foto di un Kerry festante. Entrambe le gaffes sono legate alla tecnologia nuova, il sondaggio post voto del Chicago Tribune venne condotto via telefono e molti elettori democratici, operai e contadini, non ne avevano ancora uno in casa, mentre nel 2004 gli exit polls erano spesso condotti online, ne parlarono per primi il Washington Post e il Corriere della Sera, ma Karl Rove, astuto consigliere di Bush figlio, mobilitò migliaia di evangelici, nascosti al radar web, ribaltando le stime.

La vittoria di Trump fu, nel 2016, troppo sul filo di lana, in Michigan passò per 1/5 dell’1%, per essere colta da un sondaggio, e, a una settimana dalle urne il sito Five Thirty Eight fotografava la realtà con sufficiente precisione, assegnando alla Hillary Clinton il 71,4% di possibilità di vincere, contro il 28,6% concesso a Donald Trump. Ora vedete, qui i guru tv lanciano il classico “Ah Ah! I sondaggi sbagliavano!”, ma per distinguere guru da paraguru, dovete ragionare su cosa voglia dire 71% di chance contro 29% (arrotondando +0,5 -0,5). Significa che la media dei sondaggi dava a Trump oltre un quarto di chance di vittoria, in termini statistici ben solido elemento. Prendereste un aereo che ha un quarto di possibilità di precipitare? E se vi porgessi sorridendo una scatola di bonbon, invitandovi con voce flautata, “Cari, eccovi 100 dolciumi, 71 sono ottimi, mmmm, purtroppo 29 hanno una siringata di cianuro e, al primo assaggio vi fan secchi”, assaggereste o vi allontanereste a gambe levate? Sulla nostra vita il 29% ci sembra maledizione fatale, in politica, ah ah!, percentuale ridicola, vedi i numeri di Pew Research.

Oggi la media dei sondaggi è ben diversa dal 2016 e assegna a Joe Biden e Donald Trump una tara assai più marcata. I sondaggi nazionali vedono Biden al 52%, contro Trump al 42,9%, distacco che, a una settimana dalle elezioni e con un record di voti già effettuati, per posta o in persona “early voting”, (a 9 giorni dalle elezioni più americani hanno votato per posta di quanti non avevano così votato nel 2016) sarà tosto da colmare. E quanto alle possibilità di ritorno alla Casa Bianca il cospicuo 28,6% del Trump debuttante si è contratto a un più esile 12%, mentre Biden incassa un robusto 87%. Visto che ormai siete anche voi aspiranti guru, prima di lanciare il vostro roboante Ah, Ah, calcolate che su scala statale questi numeri si traducono in 193,2 voti nel Collegio elettorale per Trump, contro 344,8 per Biden, maggioranza, lo ricordate, a 270. Non esclamate, Ah, Ah, allora ha vinto Biden, ricordate l’aereo con il 12% di possibilità e la scatola con 12 cioccolatini su 100 letali, 12% è meno di 87, ma per nulla prossimo a 0. Trump è indietro ma in corsa. Analoghi numeri dal data journalist The Economist Morris.

Per di più votiamo in pandemia, Iran e Russia si infiltrano nelle liste elettorali Usa come fossero panetti di burro, sorprese non mancano, secondo Nate Cohn, sondaggista del New York Times, i picchi Covid nelle regioni aiutano Biden, ma la gara resta aperta. Non saranno, tenetelo a mente, le battute di Trump su “Kamala Harris è un mostro” contro la senatrice candidata vicepresidente democratica, né le critiche di Biden all’industria petrolifera da riformare, a far mutare opinione ai pochi incerti rimasti. Sono due idee di America diverse, una chiusa l’altra aperta, una nazionalista l’altra multilaterale, una conservatrice l’altra liberal, ad affrontarsi, e non contano gaffes o insulti, pesano cultura, politica, identità profonde, religione, economia.

Mentre i guru sgomitano in tv e online su Wisconsin, Pennsylvania e Michigan, tre stati che la Clinton perse per pigra dabbenaggine, non fece campagna né lasciò al marito Bill tempo per farla, voi guardate a Ohio, Texas, Florida e Georgia, che Trump avrebbe dovuto vincere a mani basse e che invece sono ancora in lizza. In Texas i democratici non vincono da Jimmy Carter 1976, in Georgia da Bill Clinton 1992. Pure, ecco la sostanza della partita, se anche stavolta Trump vincesse per il rotto della cuffia con il suo 12%, la rivoluzione demografica e culturale che squassa gli Stati Uniti induce un riallineamento storico dell’elettorato. Chiunque segga alla scrivania dello Studio Ovale della Casa Bianca, costruita con il legname della nave artica “Resolute”, dono della Regina Vittoria 140 anni fa, dal gennaio 2021 al gennaio 2025, vedrà i due partiti intenti a una profonda rielaborazione politica, altro che gaffe banali. I giovani, 18-29 anni, hanno già votato, in percentuale, più del 29% rispetto al 2016, con picchi del +121% in Michigan e +40 in Texas, prevalenza ai democratici. Le donne, bianche e no, passano ai democratici, come gli anziani over 65, spaventati dal Covid, Trump spera sui fedeli maschi bianchi senza laurea, su un incremento fra afroamericani e ispanici e sulla base militante repubblicana che, davanti alla minacciata ondata blu dei democratici, arrivi in massa alle urne, invisibile ai sondaggi come gli evangelici di Rove 2004.

Non so quindi, spero di non deludervi, chi vincerà la presidenza, ma, fidatevi, non lo sanno neppure i guru, che mal celano il tifo. Queste, però, sono le posizioni in campo, e vedremo, con calma, cosa accadrà. So invece che l’America del XXI secolo cambierà faccia, passione, fede, età, identità e, d’ora in avanti, sceglierà sempre chi, meglio, saprà rappresentarla nelle sue caotiche, cangianti e, spesso ostili fra loro, identità. In pochi anni né il partito democratico né il repubblicano somiglieranno alle formazioni di Roosevelt e Obama, di Nixon e Reagan che ben conoscevamo, assorbendo dosi massicce di socialismo e populismo, guardando a mercato e capitalismo con occhi nuovi. Questa rivoluzione formidabile richiede, per esser compresa, umiltà, passione e ragione, non gutturali Ah Ah e dovremmo prestarle grande attenzione perché presto, molto presto, la campana del cambiamento radicale, da Washington, rintoccherà nelle capitali europee.