Il primo bilancio federale proposto dal neo presidente repubblicano degli Stati Uniti, Donald Trump è una sfida al suo partito, che dovrà ratificarlo al Congresso. 
La più radicale manovra sulla spesa pubblica in America, dalla fine della Seconda guerra mondiale, avvantaggia la Difesa, che riceve un incremento del 9% pari a 54 miliardi di dollari, insieme al Dipartimento della Sicurezza Homeland Security, +7%, inclusi i fondi per il muro al confine con il Messico.  

Perdenti, il Dipartimento di Stato e l’Agenzia sull’ambiente Epa, che si vedono amputato circa un terzo del bilancio – e solo le preghiere del segretario Tillerson hanno evitato ai diplomatici guai peggiori. 

Programmi molto cari a tanti americani, per l’arte, per la radio pubblica Npr, per gli aiuti internazionali, vengono cancellati, come pure i fondi per la ricerca scientifica all’Nih (-5,8 miliardi, un quinto del budget) che fanno dell’America il leader mondiale degli studi di medicina e biologia. Migliaia di impiegati e funzionari verranno licenziati, 3200 solo negli uffici per la difesa dell’ambiente, mentre l’Agenzia per le energie, Advanced Research Projects Agency-Energy, si azzera. Ridotti o cancellati programmi per i poveri, case, lavoro, scuola, sanità, malgrado tanti di loro abbiano votato Trump. 

Il direttore del Bilancio Mick Mulvaney parla chiaro, «Per bonificare la palude non puoi lasciarci gente dentro», vale a dire per prosciugare corruzione e sprechi a Washington devi sacrificare posti di lavoro. Trump e i suoi consiglieri più ideologici, Bannon e Miller, sanno benissimo che al vaglio del Congresso molto cadrà delle loro proposte. Il senatore repubblicano Rubio ha già detto «Sulla legge finanziaria la Casa Bianca propone, il Congresso dispone» e parecchi parlamentari voteranno i fondi destinati a Difesa e sicurezza, ma ripristineranno programmi amati dai loro elettori. Temono una finanziaria di «potere hard», che taglia i fondi per l’America «soft», diplomazia, scuola, cultura, cannoni senza burro e laboratori. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti, lo ricorda lo studioso Joe Nye, hanno sempre accoppiato il bastone delle armi alla carota delle borse di studio Fulbright, delle radio internazionali, di programmi capaci di promuovere, in casa e nel mondo, l’immagine di paese democratico e aperto. 

Ma non sottovalutate l’astuzia di Trump e del suo gabinetto. Hanno firmato un bilancio per «Rifare l’America Grande» e quando poi i parlamentari torneranno a finanziare certi programmi - esteri, scienza, poveri, cultura - li accuseranno di non volere ridurre la spesa e di pensar solo alle clientele. Chi vincerà il duello è presto per dirlo, ma Trump tira dritto e sfida lo status quo, a destra e sinistra. Vincesse la mano resterebbe, da solo, al comando. Se la guerra di posizione dei democratici, coadiuvata nell’ombra da vari repubblicani, prevalesse, allora i duri trumpiani lasceranno posto ai moderati. 

Nel frattempo, però, il Congresso blocca ogni passo avanti sulla nuova riforma sanitaria anti Obama, e finché il Presidente non scioglie l’enigma non potrà annunciare i tagli fiscali e il piano di lavori pubblici promessi (e il budget toglie alle ferrovie mezzo miliardo di dollari). Quanto al decreto emigrazione anche il secondo, più moderato, è stato impugnato dalla magistratura. Il clima, in Borsa e tra gli imprenditori - o confermava ieri all’Università Luiss il magnate sir Martin Sorrell - resta effervescente, ma da ora in poi i tweet devono cedere il passo alla logica dei numeri: con spesa in aumento, tasse da ridurre, tagli in dubbio, deficit e debito saliranno, per l’orrore dei conservatori. Il budget di Trump non fa sconti a nessuno, ma nessuno ne farà da ora in avanti al Presidente.